Qualcuno tra i quasi cinque milioni di elettori italiani residenti all’estero ha già votato (le schede sono arrivate nelle case e devono tornare nei consolati entro il 9 giugno), gli oltre 46 milioni di elettori che invece sono in Italia devono andare ai seggi domenica 12 giugno in un giorno solo. Lo faranno in misura sufficiente perché i referendum siano validi, vale a dire la metà degli aventi diritto più uno?
L’ultima volta che si sono tenuti dei referendum il 12 giugno (ma in quel caso si votava anche lunedì 13) il quorum è stato raggiunto. Quella del 2011 è stata però un’eccezione: prima di allora e dopo, negli ultimi 25 anni, il quorum di validità dei referendum abrogativi non è mai stato raggiunto.

Quest’anno per la prima volta nella storia i referendum sono abbinati al primo turno delle elezioni amministrative (era accaduto solo con il turno di ballottaggio) come chiesto da Lega e radicali – partiti che sarebbero stati i promotori se avessero consegnato le firme, invece hanno lasciato che a chiedere i referendum fossero i consigli regionali di centrodestra.

L’abbinamento però non è garanzia di affluenza alta, la partecipazione nel nostro paese è in costante calo a prescindere dal tipo di elezione. Negli ultimi tre anni tra europee, regionali, referendum costituzionale e comunali l’affluenza media è rimasta tra il 50 e il 54 per cento. Le amministrative di quest’anno coinvolgono appena il 20% dell’elettorato, guardando ai precedenti città per città (2017) in diversi casi l’affluenza è stata bassa anche al primo turno. A Genova e Como addirittura sotto il 50%, a Monza e Palermo di poco sopra.

I referendum sono cinque. Il primo (scheda rossa) chiede di abrogare l’intero decreto legislativo 31 dicembre 2012 n° 235 noto come decreto Severino. Legge controversa a partire dal titolo, perché dichiara di occuparsi di «incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna» ma poi stabilisce la sospensione dall’incarico degli amministratori regionali e comunali anche solo dopo una condanna in primo grado per reati gravissimi (mafia e terrorismo) o contro la pubblica amministrazione.

La Corte costituzionale in passato ha salvato questa che sembra una palese violazione della presunzione di non colpevolezza (fino a sentenza definitiva) proprio perché la legge parla di «sospensione». Nella pratica, però, la legge ha messo fine al lavoro di tanti sindaci che successivamente sono risultati innocenti. Per questo anche il Pd, che pure prevalentemente è per il No, ha presentato una proposta per modificare la legge Severino. Il referendum cancella l’intero testo unico, anche le parti che prevedono la decadenza e l’incandidabilità in parlamento dei condannati con sentenza definitiva (le norme che sono costate il seggio a Berlusconi e Galan, ma non a Minzolini). Questo non vuol dire che corrotti e corruttori avrebbero la strada del parlamento spianata, solo che tornerebbe a essere i giudici a stabilire – eventualmente – la pena accessoria dell’interdizione.

Il secondo referendum (scheda arancione) vuole abolire una delle tre possibilità per le quali i giudici possono oggi disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione (in carcere o ai domiciliari) prima della sentenza. In caso di vittoria del Sì, i giudici potrebbero continuare a disporre l’arresto preventivo per pericolo di fuga o pericolo di inquinamento delle prove, ma non più per il rischio di reiterazione di un reato grave uguale a quello per cui si procede. Una novità che, intervenendo sulla fattispecie più usata, potrebbe correggere un problema molto serio della nostra giustizia: siamo il paese tra tutti quelli del Consiglio d’Europa che ha la percentuale più alta di detenuti in attesa di giudizio. Un detenuto straniero su due da noi è agli arresti da presunto innocente.

Il terzo quesito (scheda gialla) è il più difficile da capire dalla lettura del testo stampato che è lungo 7.515 caratteri (cioè di più dell’articolo che state leggendo). Ma se approvato avrebbe una conseguenza netta e chiara: la definitiva separazione delle funzioni tra magistrati dell’accusa e magistrati giudicanti. La carriera delle toghe resterebbe la stessa, perché per dividerla in due servirebbe una riforma costituzionale, ma dall’eventuale successo del referendum in avanti chi scegliesse di fare il pubblico ministero non potrebbe mai più fare esperienza come giudice e viceversa. La vittoria del sì sarebbe chiaramente il primo passo verso un diverso inquadramento dei magistrati requirenti, che a quel punto avrebbe senso si specializzassero nella ricerca delle prove di accusa entrando nell’orbita della polizia giudiziaria (e del potere esecutivo).

Il quarto quesito (scheda grigia) anticipa e allarga una riforma prevista dal disegno di legge sull’ordinamento giudiziario che è stato già approvato alla camera ed è in discussione al senato. Punta a dare diritto di voto nei consigli giudiziari distrettuali e nel consiglio direttivo della Cassazione non solo ai magistrati, ma anche agli avvocati e ai professori universitari di giurisprudenza quando si tratta di fare le valutazioni di professionalità delle toghe. Secondo la legge in discussione in parlamento, questo diritto andrebbe dato solo a un rappresentante degli avvocati e anche in questo caso i magistrati temono quella che considerano un’interferenza. Il testo di legge però è una delega, per cui il governo avrebbe comunque margini di interpretazione mentre il quesito referendario è certo.

Il quinto quesito (scheda verde), pomposamente chiamato dai sostenitori «riforma del Csm», vuole abrogare in realtà una norma assai marginale, quella che prevede chele candidature dei magistrati per il Csm debbano essere sostenute da almeno 25 firme di colleghi. Modifica troppo modesta perché si possa parlare di «scacco alle correnti», peraltro già prevista con una norma di immediata applicazione nella legge in discussione al senato. Non è certo con referendum di poco impatto come questo che si richiamano gli elettori e si combatte l’astensionismo.