Il presente e il futuro democratico del nostro Paese dipendono strettamente dal peso politico e sociale delle forze progressiste e di sinistra. Un peso che in questa fase storica, soprattutto dopo la vittoria delle destre alle elezioni del 25 settembre, è poco rilevante, indefinito, nutrito da rissose polemiche che in realtà appaiono come il surrogato di blande identità politiche, particolarmente evidenti rispetto a una destra che, invece, della propria identità ha fatto la chiave della scalata al governo del paese.

Di questo appannamento, della profonda sconnessione tra il nome e la cosa, il Pd rappresenta l’emblema perché, dopo la botta delle urne (più politica che elettorale), è il partito che ha accusato il colpo di immagine più forte, tanto da indurre il segretario Letta a farsi da parte per avviare, attraverso un processo costituente, una radicale rifondazione. Nella direzione di una nuova forza politica e di una nuova segreteria.

Nonostante l’altezza della sfida, il primo atto dello spettacolo non è entusiasmante visto che, al momento, quasi tutto sembra ruotare intorno alle candidature alla segreteria anziché dare corso al confronto sui contenuti, sul programma, sulla natura e collocazione del nuovo Pd. Come se il processo costituente fosse in realtà una mossa gattopardesca, il vano tentativo di coprire la verità di un partito ancora con un considerevole seguito, ma giunto al capolinea.

Un partito presente ma inerte perché profondamente diviso, avvelenato dalle lotte di potere, dallo spirito correntizio, dalla eredità distruttiva del renzismo, epifenomeno, ultimo fuoco d’artificio di una lunga crisi.

Ma una novità si è appena palesata di fronte all’opinione pubblica progressista. Una novità di rottura con il decennio che, dal 2011 a oggi, ha trasformato il Pd in una forza governativa, centrista, neoliberale, perdendo per strada larga parte di quella identità socialdemocratica che lo aveva portato ad essere il più forte partito erede della sinistra storica. Erede e dissipatore, fino a cancellare la parolaccia «sinistra» persino dal nome.

Elly Schlein, con la sua candidatura, vorrebbe invece ridare vita a questa anima di sinistra perduta, senza tuttavia nascondere che il suo vissuto politico non è legato alla storia post-comunista, essendo e dichiarandosi una «nativa democratica». E lo fa mettendo in campo la sua carta d’identità, il suo essere femminista, lesbica, ambientalista, socialista (come del resto testimonia la storia della sua famiglia).

Una donna giovane libera dai condizionamenti, aperta agli altri compagni di strada (nell’assemblea romana di presentazione della propria candidatura, si è rivolta ai presenti con un tradizionale e significativo «compagne e compagni»). Per molti versi sorella di altre leader delle forze ambientaliste e progressiste delle democrazie europee.
I temi che lei ha indicato come prioritari spingono il Pd verso una radicalità politica dimenticata, perché mette ai primi posti le diseguaglianze, la precarietà, l’ambiente, la giustizia sociale, puntando ad un diverso modello di sviluppo che abbandoni il liberismo economico, cavalcato anche dall’ultimo Pd, irretito dall’agenda Draghi (spesa pubblica senza visione, senza riforme strutturali). In definitiva mettendo al centro del campo la sfida di creatività e inclusività che già connotava la sua lista «Coraggiosa» alle ultime amministrative emiliane.

È pur vero che desideri e parole restano tali finché non si trasformano in realtà. D’altra parte la montagna che dobbiamo scalare, per allungare la prospettiva, la vediamo tutti. Ma il solo annuncio della sua candidatura ha acceso un fuoco di sbarramento, visibile sui giornali, nei dibattiti tv, sul mondo dei social.
I giornali della destra usano l’arma del dileggio («Schlein è una fuori di testa»), o del complotto («I suoi padrini sono Prodi e Soros»). La macchina del fango (definirla “lesbica accanita” è sessismo violento) si è messa in moto.

Nel Pd se la deve vedere sopratutto con gli orfani del renzismo, sostenitori degli altri candidati alla segretaria del Nazareno, tra i quali spunta il tandem Bonaccini-Nardella, figliocci prediletti del rottamatore toscano. L’asse del toscanello-emiliano invoca il partito dei sindaci, abbassa l’orizzonte del cambiamento facendolo coincidere con il pragmatismo: sempre necessario e sempre insufficiente a ridare senso all’utopia di una forza ecosocialista di questa epoca.

Non è difficile immaginare una forte reazione di rigetto verso l’intrusa, che, tuttavia, è stata negli anni passati inscritta al Pd, per uscirne dopo la congiura dei 101 contro Prodi, quindi parlamentare europea con un bel bottino di preferenze.
A noi, che siamo partecipanti al dibattito e non solo osservatori, interessa la candidatura di Elly Schlein perché se non altro è una boccata d’ossigeno per quella cultura politica di sinistra da tempo sepolta, nascosta, negata.

Ormai molti anni fa, titolammo un’inchiesta politica con «C’è vita a sinistra», dando la parola a una vasta community politico culturale. Con Schlein potremmo dire che c’è ancora nuova vita a sinistra. Probabilmente lei non riuscirà a vincere la battaglia per la segreteria del Pd, ma riportare la sinistra alle luci della ribalta è già un tentativo che merita la giusta attenzione.