Dopo un dibattito destinato a scalzare nei libri di testo quello del 1960 fra Nixon e Kennedy come paradigma negativo, il sole è sorto ieri su un partito democratico in preda allo scompiglio. Il candidato cui sono affidate le sorti, non solo del partito, ma dello stato di diritto e della moderna democrazia americana ha fallito la prova. Su questo non vi è dibattito, lo hanno dovuto ammettere anche i “surrogati”, gli esponenti allineati per sostenere il presidente nelle interviste e nei talk post-dibattito.

L’unico a non rendersene conto forse è lui: «Non sono bravo come prima a fare i dibattuti – ha detto ieri sera rispondendo alle sollecitazioni a farsi da parte – ma vi assicuro che vincerò. È in gioco la vostra libertà, la vostra democrazia e l’America»,

NESSUNO “SPIN” è servito a nascondere il disagio dei democratici che in questi mesi hanno cercato di minimizzare l’insufficienza “agonistica” del proprio candidato e rimuovere la dissonanza cognitiva che la sua profonda imperfezione provoca nei ranghi. Sotto gli implacabili riflettori dello studio televisivo il campione democratico è parso pietosamente senza vestiti.

Invece della sperata “sufficienza” vi è stato il temuto tracollo, testimoniato live da milioni di sostenitori che hanno urlato agli schermi dei televisori le risposte che avrebbero voluto sentire da Biden. A dibattito era in corso, online, nelle chat e nei gruppi social, si è diffusa dapprima l’incredulità poi la mortificazione e infine il panico. Amplificati in tempo reale, i bisbigli sono diventati grida di allarme e per la prima volta si è vioato apertamente il tabù della sostituzione in corsa del candidato.

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Non lo fanno oggi solo le legioni di commentatori freelance che hanno inondato i canali online di meme e pubblico ludibrio, bensì esponenti di spicco della galassia Dem.

«VISTO DOVE SIAMO, devo unirmi a malincuore al coro che chiede a Biden di farsi da parte», ha scritto Paul Krugman, l’economista Nobel e storico sostenitore di quello che considera «il miglior presidente della mia vita». Il suo intervento è stato indicativo di quanto costi oggi a molti leali democratici la constatazione. «Forse verrò considerato un traditore, per quanto ho sostenuto le sue politiche, ma temo che sia giunto il momento di riconoscere la realtà».
Per molti democratici quella realtà è la terribile, improvvisa constatazione di un disastro al rallentatore, di un errore di valutazione riconosciuto quando ormai potrebbe esser troppo tardi per porvi rimedio.

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Nel Day After, e con quattro mesi appena prima delle elezioni, il partito che spera di sbarrare la strada alla definitiva mutazione della superpotenza occidentale in stato autoritario e post-liberale, si trova prematuramente ad elaborare una sconfitta improvvisamente molto più tangibile, e affrontare, in ordine sparso, gli stadi classici della negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione che seguono i lutti.

IN QUESTO QUADRO, l’establishment bideniano, quello che non ha mai attivato un piano per la successione «ordinata», che avrebbe dovuto essere iniziato quattro anni fa, rimane bloccato sul primo stadio, la negazione. I luogotenenti del partito, compresi alcuni di quelli considerati possibili sostituti, hanno fatto quadrato attorno all’inevitabilità di Joe Biden candidato. Kamala Harris, che la campagna Trump dipingerà da oggi più facilmente come la «vera» candidata dei democratici, ha dato la linea stoica sulla Cnn subito dopo il dibattito sminuendo la prova «debole» del presidente in carica e deflettendo ogni domanda su quella «peggiore» dell’avversario, pericolo assai più imminente per la nazione.

LA VERITÀ dell’argomento «Trump è peggio» nulla toglie però alla colpevole responsabilità di avergli regalato un’occasione d’oro per poter distogliere l’attenzione dalla sua impresentabilità e riportarla sulle defaillances di Biden. Un assist imperdonabile che abdica la battaglia più esistenziale e tradisce la maggioranza popolare che rimane anti Trump, ma che potrebbe facilmente veder prevalere l’ex presidente nel sistema uninominale per stati, filtrato dal collegio elettorale.
È stato noto sin dall’inizio che queste elezioni si giocheranno sull’entusiasmo e la motivazione che determineranno i livelli di assenteismo e la tenuta delle coalizioni, e il presidente rischia di averli fatalmente inibiti. Ma ancora ieri insisteva: «So come fare questo lavoro» ha detto ieri in North Carolina, dicendosi sicuro della vittoria in questo stato.

L’ATTUALE TERRENO post politico, che ingigantisce il ruolo del carisma personale, sembra già in partenza progettato per sfavorire un politico vecchia maniera come Joe Biden (e per riabilitare un golpista condannato che si ripropone come giustiziere dell’America peggiore).

Ora la sua strada accidentata è stata, da lui stesso, resa forse impercorribile. Non è chiaro quale possa essere un’alternativa, o se ci sia tempo per completare gli stadi della necessaria elaborazione. Ma da ieri è chiaro che una parte consistente d’America la consideri inevitabile.