Arrivammo a Miami a metà pomeriggio e già stavamo facendo tardi per il soundcheck. Dal finestrino ero intento a guardare quelle case enormi piene di ricchi dentro e fuori. Case costruite vicino ai canali con tanto di barca o motoscafo e molo privato. Eravamo a Miami Beach e non potevo crederci che il Cameo Theatre si trovasse in un quartiere così altolocato. In effetti, essendo una costruzione architettonica art déco, il teatro si trovava esattamente nel mezzo del Art Déco District. Affascinante e ancor più curiosa come immagine.
Il Cameo era un punto di riferimento fondamentale per la scena punk hardcore americana. Come per il Cbgb’s di New York, il Metro a Chicago e il City Garden nel New Jersey, il Cameo Theatre era tappa fissa di qualsiasi band di livello che si trovasse a passare in Florida in tour. Arrivammo davanti al teatro con il van e vedemmo una fila lunghissima, composta e ordinata, di punk rocker di tutte le età e razze. Ci notarono, perché stavamo cercando di capire da dove entrare con il van nel backstage. Qualcuno riconobbe Davide che si era affacciato dal finestrino del van e iniziarono a urlare il nome «Raw Power». Sembrava uno di quei video dell’arrivo dei Rolling Stones o dei Beatles, con le dovute proporzioni, alle venue con tutti i fan fuori che aspettano.
La cosa ci gasò e non poco. Tempo di entrare e prendere possesso del camerino che lo stage manager ci chiese molto gentilmente di fare subito il soundcheck. Eravamo quattro band a suonare quella sera. Aprivano i Broken Talent, poi i Sewer Zombies, poi noi e chiudevano i Dead Kennedys. Il palco era enorme, in leggera discesa verso il fronte scena, e questo ci dava modo di dare sfogo alla nostra parte acrobatica dello show.

I Raff, da sinistra: Chris Bianco, Fausto Donato, Brunello Vagnarelli, Fabiano “Master” Bianco

 

ENORMI COLONNE
Due enormi colonne di impianto voce erano state piazzate ai lati e c’erano altrettanti side monitor; erano sovrastate da quattro file di luci, le famose «americane». Il suono era forte e potente sul palco, e così fuori. Dopo venti minuti scarsi di soundcheck tornammo in camerino e notammo che ci avevano portato un bel po’ di cibo. Wow! Cosa rara, ad essere onesti. Il catering non era quasi mai previsto e questa cosa per noi significava anche risparmiare i costi della cena.
Le birre iniziammo a berle da subito. Sdraiati sui divani del camerino c’era chi si riposava, chi scriveva una lettera a casa, chi si, e ci, massacrava di scale pentatoniche sulla chitarra (forse Davide?) e chi cercava di dormire. Qualcuno bussò alla porta e senza aspettare il classico «avanti» entrò. Erano due giganti di colore, neri di pelle e di vestiti, seguiti da una persona che riconoscemmo immediatamente. Era Jello Biafra, il leader dei Dead Kennedys. Fugazi situation (guai grossi, ndr) in arrivo. Senza nemmeno spiegarci il motivo ordinò ai due giganti di prendere tutto il catering che ci era stato portato.
Ovviamente a noi la cosa non piacque per niente e chiedemmo il perché di tutto questo. Lui disse solo: «You’re not supposed to have any catering at all, this is all for the opening acts bands». Beh, fermo amico. Anche noi siamo un opening act perché se fossimo stati definiti co-headliner di certo avremmo avuto il catering e un cachet molto più alto di 200 dollari. La discussione continuò per un po’, nel frattempo i tre si portarono via tutto. Andammo a cercare di risolvere la questione con il local promoter che, alla Ponzio Pilato, se ne lavò le mani facendoci capire che non poteva certo mettersi contro i voleri di quello che al momento era considerato una sorta di guru dell’hardcore statunitense.
Noi invece ce ne stavamo altamente fottendo di chi fosse lui e la cosa ci fece imbestialire e parecchio. Tavolini e sedie furono presi a calci e io dovetti uscire nel parcheggio dell’entrata backstage per respirare e calmarmi. La tensione si era fatta molto alta e se solo il Mr. Jello non avesse avuto due guardaspalle alti più di due metri la storia si sarebbe risolta subito. Mentre ero lì fuori a respirare un po’ di «sano», caldo umido della Florida, notai che un gruppetto di ragazzi cubani stava cercando di entrare nel teatro passando per un varco aperto nella recinzione. La security, probabilmente allertata dall’esterno, intervenne subito e scoppiò una rissa. Si iniziarono a spintonare e a scazzottare ma il dramma accadde quando uno di questi ragazzi tirò fuori un coltello e lo infilò nella gamba di uno dei ragazzi della security. Era la prima volta in vita mia che assistevo a un accoltellamento in diretta. Rimasi a bocca aperta dallo stupore e dallo spavento. Ero scioccato da come il piccolo cubano aveva infilzato così naturalmente la gamba di un suo coetaneo, e probabilmente anche conterraneo, visto che la pelle e i tratti somatici sembravano gli stessi. Ero uscito per rilassarmi un attimo e invece questo ennesimo episodio mi fomentò la rabbia e ripensai allo stronzo che ci aveva portato via il cibo.

PESTARE SUI TAMBURI
Ci scaricammo con uno degli show più violenti di tutto il tour. Master pestò sui tamburi con una forza e una velocità sovrumana. Ci guardavamo durante il set e ci caricavamo con sguardi assassini. Chris (bassista, cantante, ndr) fece un’esibizione fantastica. Avrebbe potuto sputtanare al microfono l’atteggiamento da pseudo rockstar del piccolo uomo che a breve sarebbe salito su quel palco, ma non lo fece mai. Presentava i brani in tono quasi minaccioso e partivamo. Aveva un carisma impressionante. Era temibile. La sua faccia era una fiamma ossidrica e a metà show, durante Rockers, Davide, preso da un attacco di follia, saltò a piedi pari contro una torre dell’impianto che si stacco e crollò, per fortuna lateralmente, dove non c’era nessuno. Il pubblico non si spaventò e non si scompose, per loro tutto sembrava normale, come se fosse una scena già accaduta più volte al Cameo Theatre. In pochi minuti i roadie risistemarono tutto e riprendemmo il nostro set, pestando come e più di prima. Alla fine, facemmo due bis e salutammo duemila persone invasate. Fu bellissimo. Uscimmo dal palco raccogliendo le nostre cose e già i roadie dei Dead Kennedys stavano preparando il palco per la loro performance. La nostra intenzione era quella di ripartire dopo lo show. Ci avevano invitato le nostre amiche del college a Orlando a fermarci due notti da loro e avevamo accettato volentieri l’invito. «Ragazzi, ci vediamo un paio di pezzi dei D.K. e poi partiamo?», chiese Chris. Accettammo, anche se ben volentieri io il concerto me lo sarei risparmiato. A prescindere da quell’episodio da idiota del loro cantante, non è che i D.K. mi facessero impazzire musicalmente, anche se gli altri membri della band con noi si erano sempre dimostrati gentili e socievoli. Iniziarono il loro show e ci piazzammo sul lato sinistro del palco, in una zona buia tra il mixer e dietro gli amplificatori del chitarrista. Partirono veloci ma il tiro non era come il nostro. «Cari D.K., sorry, ma l’incazzatura che ci avete trasmesso l’abbiamo trasformata in musica ad alto potenziale», pensai. Al terzo brano notammo che Jello ogni tot minuti si portava dietro il Marshall del chitarrista e beveva acqua da una tanica bianca lì appoggiata. Non ci fu nemmeno bisogno di parlare, bastò uno sguardo tra noi, e soprattutto spinti dalle nostre vesciche cariche di birra, ci avvicinammo alla tanica. Emettemmo. Emettemmo felici e ce ne uscimmo dal teatro canticchiando Have a drink on me degli AC/DC.
Non passarono quindici minuti che eravamo già tutti sul van, molto soddisfatti dello show e estremamente felici in generale per l’epilogo della serata. «Lisa prendi lo Stay Awake e vai» (la driver e le pillole di caffeina per stare sveglia, ndr). Orlando e le nostre strane amiche ci aspettavano. «L’ego? Forse non sarà la parola più fantastica del ventesimo secolo ma di sicuro è la sostanza che avvelena gli organi vitali di ogni divo del pop». (Lester Bangs)

*Un estratto da «Rockers-Diario sulle strade del rock’n’roll» (Officina di Hank, pp. 214, euro 18), il libro uscito di recente di Fausto Donato, musicista, critico musicale, discografico