«Ci vogliono togliere anche il respiro». Mahbouba Seraj ci accoglie nel suo ufficio nel quartiere di Parwan-Seh, a Kabul. Sulla collinetta alle spalle dell’edificio, un bambino setaccia l’immondizia in cerca di plastica. Sulla sua bicicletta, un grande sacco annerito, riempito a metà.

DENTRO L’EDIFICIO, alcuni visitatori. Una coppia la blocca e le chiede aiuto, con toni enfatici. Parlano a lungo. Poi i due, moglie e marito, si calmano. «È così ogni giorno, a ogni ora», spiega Seraj, nipote del re riformatore Amanullah Khan e attivista per i diritti delle donne, decisa a restare a Kabul.

L’Afghanistan vive una crisi umanitaria ed economica senza precedenti: per l’Onu, circa il 95 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, il World Food Programme ieri ha stimato in 20 milioni, su 40 milioni totali, la popolazione in grave insicurezza alimentare. Per il tassista che ci porta a casa, una forma di pane da 10 afghanis (10 centesimi di euro) è la cena.

«Ne vuole un pezzo?». Le ville di Sherpur, il quartiere centrale simbolo della speculazione edilizia e della corruzione della Repubblica collassata il 15 agosto 2021, sono occupate dai pezzi grossi dei Talebani. Tre, quattro piani di ostentato benessere, alte mura, telecamere. Le garette militari sono perlopiù sguarnite. Abbandonate. Lì dentro, soldati pagati una miseria difendevano il fortino dall’assalto dei Talebani che oggi controllano il quartiere. Kabul. L’intero Afghanistan.

«I problemi del paese sono enormi, non c’è lavoro, non c’è cibo, non ci sono prospettive, a Kabul c’è elettricità due ore al giorno, ma loro non hanno altro per la testa che le donne: donne, donne, soltanto donne». L’ultimo decreto del leader supremo, la ‘guida dei fedeli’ Haibatullah Akhundzada, le obbliga a coprirsi anche il volto, con un abito integrale, dalla testa ai piedi.

«LE DECISIONI SONO IN MANO a una manciata di persone, al ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio». Il portavoce del ministero, Mohammad Sadiq Akif, per oggi ci ha promesso un’intervista. Chissà. Le giravolte di questi ultimi mesi indicano una leadership divisa, senza strategia politica di lungo respiro, forse incapace di arginare gli elementi radicali che, qui a Kabul, molti continuano a considerare una minoranza. Ma decidono. Le loro scelte producono isolamento. La popolazione è strangolata dalle sanzioni occidentali, soffocata dalle politiche repressive dei Talebani. Senza speranza.

«In qualche modo me l’aspettavo. Mancava solo l’obbligo del volto coperto. Per il resto, ci hanno già tolto tutto: lavoro, istruzione, libertà di movimento. Ma le donne afghane sono forti, resilienti». Il pedigree famigliare e professionale permette a Seraj, rientrato nel Paese nel 2003 dopo lunghi anni negli Usa, di avere un ruolo pubblico. Di andare in televisione a dire come la pensa, criticando. Pochi possono permetterselo. Quasi tutti i nostri interlocutori chiedono l’anonimato.

UN UOMO CHE CONOSCE bene il sistema dell’informazione due giorni fa ci ha detto che «non c’è più spazio per alcun dissenso né critica». Intimidazioni, arresti arbitrari, torture, scosse elettriche. Proteggere i giornalisti, prima che fare informazione, è la priorità. Mentre Abdul Qahar Balkhi, per il ministero degli Affari esteri, condanna «nei termini più fermi l’omicidio deliberato della giornalista di al Jazeera Shireen Abu Akleh da parte delle forze israeliane in Palestina» e «l’attacco alla libertà d’espressione». Mahbouba Seraj è preoccupata: «L’idea di punire gli uomini della famiglia se le donne non obbediscono alla legge, spalanca le porte a nuovi abusi, violenze domestiche».

Alla retorica occidentale sui diritti delle donne afghane non ha mai creduto: «Negli ultimi 20 anni, tutti hanno usato quei diritti strumentalmente, anche voi stranieri». Critica sia la cecità di Washington e Bruxelles che «l’arroganza dei Talebani: pensano di rappresentare tutto il Paese, ma non è così. Non ascoltano».

Li ha incontrati alla fine di gennaio a Oslo, a un incontro organizzato dal ministero degli Esteri norvegese. Alcune organizzazioni della diaspora afghana in Europa hanno criticato l’evento, che avrebbe fornito una platea internazionale ai Talebani.

È la posizione del «né dialogo né riconoscimento» con gli uomini dell’Emirato. Seraj non la condivide. «Stanno facendo cose terribili, ma se non si parla che si fa? Si lasciano le cose come sono? Devono decidere le donne e gli uomini afghani, non gli stranieri. E non c’è altra via al dialogo. Noi qui ci viviamo».

«NON ME NE VADO per non lasciare il Paese a un manipolo di radicali ignoranti». Abdullah (nome di fantasia) è attivo nel settore dell’educazione. Di recente ha organizzato distribuzione di aiuti umanitari nella provincia di Kabul. «Avrei legami, risorse e canali per lasciare legalmente l’Afghanistan e vivere per un paio di anni tranquillo all’estero, ma le cose si cambiano da dentro». Sostiene che i Talebani in questi nove mesi abbiano perso occasioni d’oro.

Dissipando il credito che qualcuno era disposto a concedergli. E finendo per alienarsi del tutto la popolazione. «Ogni famiglia ha una figlia che dovrebbe andare alle superiori e che invece sta a casa. La discriminazione è trasversale». Si riferisce alla retromarcia del 23 marzo scorso: comunità internazionale e ministero dell’Istruzione erano sicuri che le scuole avrebbero riaperto. Ma non è stato così: oggi sono 237 giorni che le studentesse sopra gli 11 anni non possono andare a scuola. Unico Paese al mondo.

«ANZICHÉ AL NOSTRO HIJAB, pensassero a lavarsi e a tagliarsi i capelli», dice una studentessa di 19 anni che incontriamo nel centro commerciale Gulbahar, tre piani di negozi lucenti e un piano terra con un caffè rumoroso tra il palazzo presidenziale e il bazar centrale. Vestita alla moda, in testa un foulard finto Chanel, dice che proprio non le va giù il decreto. «Decidiamo noi cosa metterci».

Non ha obbedito. Veste come prima. «Ma in casa mi dicono di stare più attenta». «Chi pretendono di essere per dirci come vestirci?», contestano altre due ragazze. Due uomini passano, si girano a guardarle. «Meglio mettersi la mascherina».