«Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te»: non sappiamo a chi attribuire questa massima ma certamente ha una attualità sconcertante. Parliamo del silenzio assordante e sempre più affluente sulla condizione della crisi mondiale che attraverso la guerra mostra il suo vero volto, internazionale quanto domestico.

Accade sotto i nostri occhi che, al di là degli annunci ondivaghi, teatrali quanto sprezzanti, alla fine la scelta del nuovo presidente di destra degli Stati uniti d’America Donald Trump sia quella di considerare l’Alleanza atlantica come baluardo «incrollabile».

Lo ha trasmesso ieri il vice-presidente Usa Mike Pence in visita in Europa dove è venuto a rassicurare sulla condivisione del rifondato Patto atlantico. Quello che ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia portandoli da decenni in tutte le guerre devastanti che l’Occidente ha consumato non solo in Medio Oriente e che si allarga a est sulla frontiera russa con truppe, sistemi d’arma, scudo antimissile che monta testate nucleari.

E prima lo aveva affermato due giorni fa il nuovo capo del Pentagono Jim Mattis, non solo ribadendo «amicizia incrollabile» ma chiedendo – bene accolto dagli alleati – un aumento della spesa per la difesa, del 2% del Pil, ai Paesi europei dell’Alleanza atlantica.

Così l’Italia che è «solo» all’1,1% del Pil in spese per la difesa, per un equivalente di 55 milioni di euro al giorno, potrà serenamente arrivare a circa 100 milioni di euro al giorno. Perché l’Unione europea, dalla Merkel alla Mogherini rispondono che sì, «la Nato va rafforzata» e certo anche «l’Ue e l’Onu».

La Nato che resta istituzionalmente sotto comando militare dello Stato maggiore americano. Mentre Mike Pence l’Ue nemmeno la nomina.

Allora, vista la crisi drammatica dell’Unione europea che non a caso ha perso con la Brexit la sua fetta atlantica, forse è meglio riflettere.

Perché al punto in cui siamo appare evidente che più atlantismo vuol dire solo meno europeismo.

Infatti è la Nato che resta «incrollabile», che aumenta il suo bilancio, che si allarga a est, che riempie di basi il Vecchio continente, che si allunga a Sud. Mentre è in forse l’esistenza dell’Unione europea.

Sullo sfondo c’è certo la crisi ucraina. Ma come dimenticare che nel 2013 sarebbe stata possibile una diversa soluzione di quella crisi, prima economica e poi politica, se su piazza Majdan fosse arrivata la Commissione di Bruxelles a trattare le condizioni della crisi economica simile a quella greca. Invece arrivarono il capo della Cia John Brennan, il vice presidente democratico Joe Biden e il repubblicano anti-trumpista McCain, a fare comizi e ad arringare folle per buona parte guidate dall’estrema destra xenofoba ucraina. Aprendo un precipizio, dall’impunita strage di Odessa, all’annesione russa della Crimea, alla guerra civile in Donbass.

Un precipizio su cui la Nato ha soffiato e soffia con passione. A Est e a Sud. Come in Libia, dove, alla fine del memorandum trattato con l’Italia, di fronte alle divisioni del paese e alla rottura con il generale Haftar, il «nostro» premier Sarraj, che non controlla neanche Tripoli, richiama in soccorso proprio la Nato. Lo stesso organismo militare che ha distrutto il Paese con i raid aerei  nel marzo 2011.

La guerra è distruzione di vite umane e risorse, è seminagione di odio, è dominio-imperio degli spazi economici e finanziari con la violenza militare; è attivazione della asimmetrica (e strumentale) spirale terroristica.

La fuga disperata di milioni di esseri umani che chiamiamo migranti è epocale perché corrisponde all’epoca delle guerre occidentali in Medio Oriente, che hanno distrutto tre stati, l’Iraq, la Libia e la Siria, fondamentali per gli equilibri mondiali; ed è epocale perché corrisponde alla rapina epocale, da parte delle multinazionali, delle ricchezze dell’immensa Africa dell’interno.

Ora, di fronte a chi fugge dalle guerre e dalla «miseria da rapina», l’Europa, nonostante le evidenti responsabilità, erige muri e militarizza i propri confini. Fino alla soluzione del blocco navale militare e alla pratica di esternalizzare l’accoglienza dei profughi a Paesi esperti in tortura e campi di concentramento.

Ecco la nuova governance: la guerra e gli universi concentrazionari.

Nelle stanze domestiche, solo pochi giorni fa in Italia si è consumato un vero e proprio «golpe» da parte del governo Gentiloni (fotocopia di Renzi) che ha approvato un disegno di legge per implementare il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale».

Di fatto si istituzionalizza la guerra con l’assegnare alle Forze armate missioni che stravolgono la Costituzione: gli «interessi vitali» del Paese (invece della patria, come da art.52 della Costituzione); il contributo alla difesa collettiva della Nato e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo; la gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento; e, dulcis in fundo, si affida alle Forze armate sul piano interno «la salvaguardia delle libere istituzioni…con compiti specifici in casi di straordinaria necessità e urgenza».

Non si tratta di spalare la neve. Siamo alla istituzionalizzazione della «guerra umanitaria» che dai Balcani, all’Afghanistan – dove le truppe italiane sono nel contingente Nato in una inutile quanto sanguinosa guerra da 16 anni – fino all’Iraq e alla Libia non solo non hanno risolto le crisi internazionali ma le hanno aggravate.

Come dimenticare che la guerra sia entrata negli ultimi 25 anni prepotentemente nel dna della sinistra che si è fatta governo? Fino a diventare bipartisan? E come sorprendersi se una nuova destra nazional-populista cresca sui disastri sociali che la guerra e lo sfruttamento di risorse e ambiente hanno prodotto?

A sinistra dirimente è la guerra. È l’assunzione della parola d’ordine della pace costituente.

Il rifiuto della guerra e la difesa dell’articolo 11 della costituzione non vanno in appendice alla consapevolezza individuale e collettiva, ma al primo posto. Non c’è alternativa se non si mobilita una nuova umanità contro lo stato di guerra delle cose presenti.