Che lo Stato ucraino abbia legato le sue stesse prospettive esistenziali a una alleanza militare con l’Europa e soprattutto con gli Stati Uniti si intuisce dai tentativi ogni giorno più intensi che il presidente, Volodymyr Zelenski, compie per ottenere l’accesso alla Nato, secondo una tesi già discussa a Washington a settembre nel breve incontro con il capo della Casa Bianca, Joe Biden, e ribadita negli ultimi giorni dal ministro degli Esteri, Dmitro Kuleba, nel corso del vertice con il segretario di stato, Antony Blinken: siamo la vostra frontiera, la vera frontiera dell’occidente di fronte alle minacce del Cremlino, e siamo sotto attacco.

Ma questo approccio alle tensioni con la Russia sta spingendo Zelenski a una progressiva e controversa militarizzazione delle scelte politiche, come dimostra la decisione di inviare al confine nord, con la Bielorussia, la Quarta brigata di reazione rapida della Guardia nazionale – organismo nel quale sono state istituzionalizzate le milizie dell’estrema destra – per due settimane di esercitazioni contro la possibilità, per ora remota, di una crisi migratoria. «Il nostro obiettivo è fermare e contenere un possibile afflusso di massa di migranti illegali… anche con l’uso delle armi da fuoco», ha detto il ministro dell’Interno, Denis Monastirski, che controlla 350.000 uomini suddivisi in decine di strutture paramilitari, e un budget pari al 3 per cento del Pil.

Alla frontiera bielorussa le forze armate ucraine hanno schierato quindici elicotteri e 44 droni. Ora il governo studia un piano da mezzo miliardo di dollari per costruire una barriera anti migranti lunga 2.500 chilometri. Il problema è che su quella linea, nonostante gli sforzi di Zelenski, non c’è alcuna emergenza migranti.

Una questione irrisolta l’Ucraina ce l’avrebbe, ma al confine sudest, quello con le Repubbliche di Donetsk e di Lugansk, e con il conflitto civile che in otto anni ha provocato dodicimila vittime sui due fronti e due milioni e mezzo di profughi, questa volta reali. Anche perché per ben due volte nell’arco di una settimana prima gli Stati Uniti e poi la Nato hanno alzato il livello dell’allerta, avvisando il governo ucraino circa consistenti manovre che l’esercito russo avrebbe cominciato a pochi chilometri dalle province ribelli del Donbass.

«Tutti i pezzi sono al loro posto» per una possibile invasione, ha detto Frederick Hodges, già a capo del contingente americano in Europa e oggi consulente di un centro di ricerca con interessi a Washington e Bruxelles. La risposta di Zelenski al doppio appello atlantico è apparsa a molti surreale. «Non sappiamo perché i media americani stiano diffondendo queste informazioni, e non sappiamo neanche se le notizie siano vere o false», ha detto il portavoce del presidente, Sergei Nikoforov, in una intervista televisiva: «Quel che possiamo dire, è che al nostro gabinetto non risultano dati anomali» sulla concentrazione di soldati russi.

I dubbi restano. Il presidente russo, Vladimir Putin, intende davvero impegnare l’esercito in una operazione su vasta scala e senza garanzie in Ucraina? Oppure i movimenti lungo il confine sono un bluff strategico, un grosso e delicato esercizio dimostrativo? Il politologo russo Dmitri Trenin dell’istituto Carnegie di Mosca ha cercato di fornire una risposta razionale alle domande sui piani del Cremlino. Dal suo punto di vista, l’Ucraina è diventata per l’establishment politico intorno a Putin quello che Cuba rappresentava per gli Stati Uniti negli anni Sessanta, in piena crisi dei missili: una enorme portaerei nemica parcheggiata alla frontiera sud. «Qualsiasi leader russo cercherebbe di impedire l’ancoraggio usando ogni mezzo a disposizione» , dice Trenin. Proprio in settimana Putin ha invitato il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, a lavorare sul piano diplomatico per ottenere da Washington e dai governi europei «impegni seri e a lungo termine» su tutto il bacino del Mar Nero.

Entro la fine dell’anno dovrebbe avvenire un nuovo confronto in videoconferenza con Biden. Sino a quel momento il meccanismo della deterrenza avrà probabilmente la meglio sul dialogo. Il che, avverte sempre Trenin, esporrà per settimane le parti a una enorme tentazione: verificare il bluff degli altri. Con tutti i rischi materiali che questo comporta.