Ogni anno, il 4 maggio, in Cina si festeggia il Qingnian Jie (Youth Day): la Lega della Gioventù Comunista, la principale organizzazione politica giovanile del paese che, vantando ormai oltre 88 milioni di membri tra i 14 e 28 anni, ogni 4 maggio organizza una cerimonia di premiazione per le «giovani eccellenze» nella Grande Sala del Popolo in piazza Tian’anmen. Quest’anno, tuttavia, i primi preparativi suggeriscono un insolito basso profilo.

Senza preavviso, alla fine di marzo il Consiglio di Stato ha rimesso mano al calendario annunciando un prolungamento del primo maggio di tre giorni, così da assorbire la ricorrenza del 4 maggio in una più generica pausa vacanziera. Le ferie forzate – spiega il Financial Times – serviranno ad allontanare gli abitanti della capitale dai tradizionali luoghi di raccolta, mentre lo spazio digitale è stato «armonizzato» rimuovendo dalle piattaforme di Apple Music e QQ ogni riferimento musicale agli eventi del 1919.

Un vecchio dilemma assilla Pechino: celebrare lo storico evento a cui la leadership comunista deve le proprie basi politiche e ideologiche o relegarlo nell’oblio per aver inaugurato una stagione di proteste studentesche in grado di sovvertire l’ordine costituito? La scelta è resa anche più ardua dalla doppia cifra tonda. Il centenario del Movimento di nuova cultura coincide, infatti, con il 30° anniversario del 4 maggio 1989, quando – ispirate dai moti di inizio ’900 – circa 100mila persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo libertà di stampa e un dialogo formale con le autorità di partito. Un mese più tardi le proteste sarebbe sarebbero state represse nel sangue in quello che oggi ricordiamo come il massacro di piazza Tian’anmen.

Oggi il nazionalismo del 4 maggio conserva la propria longevità come arma di distrazione di massa in tempi di difficoltà economiche e collante sociale davanti alle nuove sfide sul proscenio internazionale. «I giovani devono connettere le loro aspirazioni individuali al ringiovanimento della nazione e al socialismo con le caratteristiche cinesi», ha sentenziato il presidente durante una recente conferenza organizzata dal Politburo per commemorare l’evento.

Ma, patriottismo a parte, tra le pieghe della storia si nasconde un’eredità ideologica incompatibile con il contesto attuale. Laddove il Md4m si caratterizzava per una violenta spinta iconoclasta, la Cina di Xi proprio dal passato acquisisce legittimità, attingendo generosamente alla tradizione cinese confuciana come antidoto contro influenze esterne potenzialmente destabilizzanti. Stampa libera, democrazia e altri concetti tipicamente occidentali esaltati dalla generazione del 4 maggio sono stati ufficialmente demonizzati in un documento interno fatto circolare pochi mesi dopo la nomina di Xi a presidente.

Le università, un tempo fucina di nuovi valori e rivendicazioni sociali, oggi vivono nel terrore di un’altra “rivoluzione culturale”: negli ultimi cinque anni, alla sospensione degli insegnanti ritenuti troppo liberali o eterodossi ha fatto seguito una campagna di arresti contro le frange studentesche più attive nel sostegno dei diritti dei lavoratori. Sorte analoga è toccata al movimento femminista, un tempo considerato indispensabile per la modernizzazione del paese. Confluito in un #metoo «con caratteristiche cinesi», è presto stato ridotto al silenzio proprio grazie all’intervento concertato di autorità politiche e accademiche. Oggi il 4 maggio può sopravvivere solo in una versione addomesticata.