All’epoca dei fatti i duelli erano ancora all’ordine del giorno e più che altrove erano apprezzati dagli studenti e dai giovani accademici. La cicatrice sulla guancia, lo Schmiss, era segno di distinzione per quelli, fra costoro, che più tenevano a essere considerati persone integre e rispettabili, ma soprattutto disposte a sacrificare un pezzo di sé per dar prova della propria onorabilità. L’uso, desunto dall’antica faida, aveva assunto intorno alla metà dell’800 valore politico; era diventato il modo in cui gli studenti liberali ricordavano lo spirito e il sacrificio degli studenti di Jena partiti nel 1813 per contrastare le truppe napoleoniche sul campo di battaglia e, insieme, la volontà di affermazione delle nuove esigenze nazionalistiche rivendicate nei moti rivoluzionari del 1848: in altri termini, un atto simbolico.

Tanto simbolico che nel 1850 passarono all’azione vietando l’uso dei duelli. Ma trapassando dal campo di combattimento ai riservati studi dei docenti, venne a cambiare magari il valore simbolico della sfida, non la modalità di esecuzione. Alla vera o presunta offesa dell’onore si sostituiva quella che poteva essere considerata l’offesa dell’intelligenza, ma il risultato restava pur sempre una sfida «al primo sangue» la cui finalità più immediata era gettare discredito su uno studioso mediocre, magari responsabile della diffusione di tesi insostenibili o di concetti contrari al buon senso e, in più vasta prospettiva, ridurlo definitivamente al silenzio. Di qui una vasta tradizione di libelli polemici quasi mai memorabili, prodotti da una supponenza accademica lasciata priva di controllo in balia di sé stessa, che ben difficilmente potrebbero entusiasmare più di uno storico del costume in vena di letargiche ricostruzioni d’ambiente.

In questo desolante panorama di miserie accademiche fa eccezione la polemica che per qualche mese, e per un solo scritto, oppose Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff – in seguito massimo filologo dei suoi tempi e fra i massimi dei tempi altrui – e Friedrich Nietzsche: una polemica acrimoniosa che non si saprebbe se rubricare fra le più notevoli cantonate d’autore mai prese da un grande studioso o fra i più ammirevoli scontri di menti geniali mai avvenuti nella storia delle università tedesche. La storia è piuttosto nota.
Dopo la pubblicazione della Nascita della tragedia nel 1872 Ulrich von Wilamowitz si scaglia contro il libro in uno scritto di battaglia che intitola Filologia del futuro! in cui, con il sadismo erudito di chi sa che avrà facilmente partita vinta, si diletta a estrapolare passi decontestualizzati dal libro nietzschiano per dimostrarne la debolezza argomentativa, l’arbitrarietà scientifica, la scarsa attenzione alle fonti e, insomma, tutte quelle cose che, sole, possono produrre un saggio scientifico accademicamente accettabile.
Così, impavido e con fare davvero marziale, Wilamowitz comincia a snocciolare quelle che gli paiono le fin troppe aberrazioni del libro sul tragico. Pochi esempi. Nietzsche dice che il mondo omerico nasce dal superamento di un arcaico pessimismo stratificato nel sapere delle saghe popolari primigenie del popolo greco? Wilamowitz si diverte: «Una cosa ancora della fede greca al tempo dell’epica popolare appartiene ai caratteri di un precedente “sguardo profondo agli orrori della natura”: il regno dei Titani (…). Solo che si può dare per sicuro che la titanomachia, anzi le dinastie e genealogie esiodee sono per la coscienza greca in parte più remote, in parte evidentemente più recenti che le divinità olimpiche di Omero».

Errerebbero coloro che pensassero… al contrasto fra commozione patriottica e voluttà estetica, fra prode serietà e giuoco spensierato… (Nietzsche)

Nietzsche pensa che Omero e il mondo olimpico da lui creato sia un fenomeno isolato nel suo tempo? E Wilamowitz ribatte che un’affermazione del genere è prova soltanto della poca familiarità di Nietzsche con Omero poiché ignora quello che la filologia ha ampiamente dimostrato, vale a dire che i poemi omerici poterono nascere solo «sul terreno di una produzione di canti estremamente estesa».

Fin qui sarebbe lecito dire che Wilamowitz si limita a una critica, dura, rigorosa, un po’ didattica e un po’ arrogante, ma sostanzialmente corretta delle tesi di Nietzsche. Se si guarda un po’ più nei dettagli ci si accorge però che Wilamowitz usa subdolamente argomenti ad personam. Nietzsche è stato suo collega a Schulpforta, la scuola d’eccellenza frequentata da entrambi prima dello studio universitario. Wilamowitz, che al tempo era l’allievo più giovane, pare bene al corrente dei successi e degli insuccessi scolastici del suo collega anziano, e quando deve contestare la tesi nietzschiana secondo cui la maledizione degli Atridi dovrebbe risalire a una fonte preomerica si lascia andare alla perfidia dello studente modello, che rinfaccia a un collega meno bravo le debolezze di profitto: «Signor N., che disonore Ella fa alla madre Pforta! Sembra che non Le sia mai stato dato da leggere Iliade B 101 o il passo corrispondente nel Laocoonte di Lessing; e l’introduzione di Schneidewin all’Edipo re di Sofocle è una sapienza che il matricolino di Pforta accoglie in sé nel primo semestre. Ella vorrà discolparsi dicendo di essersi sbagliato solo di un paio di secoli: i numeri sono una cosa trivialmente matematica».

Era evidentemente noto a Wilamowitz che Nietzsche aveva avuto il suo tallone d’Achille nello studio dei numeri. Entrambi erano stati – ed erano – considerati brillanti promesse della filologia; Nietzsche aveva già ottenuto la cattedra di filologia di Basilea (Wilamowitz avrebbe dovuto aspettare ancora tre anni per guadagnarsi lo stesso privilegio a Greifswald); Nietzsche si mostrava perfino irriconoscente nei confronti dei passati studi comuni. Ma forse il problema era un altro, meno visibile.

Che il signor Nietzsche mantenga la parola!… Raccolga pure tigri e pantere intorno alle sue ginocchia, ma non la gioventù filologica tedesca… che deve cercare nient’altro che la verità (Wilamowitz)

Difficilmente, in effetti, poteva essere sfuggito a Wilamowitz un passo della Dedica a Richard Wagner premessa da Nietzsche al suo scritto, in cui il filologo-filosofo descriveva così l’atto d’inizio del suo lavoro di scrittura: «Ella ricorderà che io mi raccolsi in questi pensieri nello stesso tempo in cui nasceva la sua splendida commemorazione di Beethoven, cioè nello sgomento e nell’esaltazione della guerra allora scoppiata». Né poteva essere sfuggita allo stesso Wilamowitz la perfida annotazione successiva: «Sbaglierebbero però di molto coloro che in questo mio raccoglimento vedessero non so quale contrasto fra l’eccitazione patriottica e il godimento estetico, fra il grave coraggio e il gioco sereno (…). Forse li urterà proprio il fatto che un problema di estetica sia trattato con tanta serietà, essendo disposti a vedere nell’arte nulla più che un piacevole accessorio, un giuoco di sonagli di cui essi possono far a meno per la serietà dell’esistenza (…). Serva d’insegnamento a codesti seriosi signori la mia convinzione che l’arte è il compito supremo e la vera attività metafisica della nostra vita».

Il passo in questione, come quasi ogni altra riga dello scritto sul tragico, è diventato famoso per la pointe finale, cui il resto del libro si offre di dare chiarimento. Ma il colpo sferrato da Nietzsche alla cieca contro i patrioti inebriati dalla guerra e ignari di arte e cultura poteva aver colpito per primo, e più dolorosamente di chiunque altro, proprio Wilamowitz, il quale non solo aveva preso parte da volontario alla guerra franco-prussiana, pur non combattendo, ma che per quel fervore patriotico aveva visto rallentare i tempi della sua carriera universitaria.

Insomma: mentre Nietzsche, per sua stessa ammissione, si sprofondava in meditazioni filologiche e filosofiche sbattute in faccia ai patrioti belligeranti come il solo legittimo servizio dell’intellettuale al suo paese, Wilamowitz – certo non meno sapiente di cose greche – aspettava nelle retrovie, con la tensione che si può immaginare, il suo primo scontro sul campo con le possibili e immaginabili conseguenze. Difficile immaginare che l’accusa rivolta da Nietzsche ai suoi contemporanei, di saper concepire il bene del proprio paese solo come questione di armi e non come effetto di erudizione e pensiero, potesse non scatenare la reazione di chi si era fatto un punto d’onore di concepirlo come conseguenza di entrambe le cose.

Al di là di ciò, molto si potrebbe dire di questo duello, vinto al primo sangue da Wilamowitz e all’ultimo da Nietzsche, grazie al trionfo del suo libro sopra ogni critica, pur legittima, e sopra l’oblio del tempo. In fondo a combattersi nei panni di due uomini offesi erano la filologia e la filosofia: il furioso accanirsi della prima sul dovere etico dell’esattezza e lo slancio della seconda verso la sfera sublime della visione superiore a qualsiasi questione di dettaglio. Un duello destinato a rimanere aperto al di là dei destini individuali dei suoi due grandi protagonisti e al di là di qualsiasi soluzione il loro scontro abbia potuto momentaneamente produrre.