Sotto la superficie ideale delle frequentazioni artistiche ci sono spesso rivalità più o meno scoperte o idiosincrasie invincibili. Qualche volta capita che a bisticciare siano due amici, pronti poi a far pace come Geppetto e Mastro Ciliegia: è il caso di Händel e Mattheson, che prima si accapigliarono sul palcoscenico davanti al pubblico, poi conclusero il diverbio con un duello, per fortuna rimasto senza conseguenze. Altre volte si tratta di antipatie non dissimulate, come l’insofferenza di Puccini nei confronti di Leoncavallo, da lui ribattezzato Leonbestia, o la diffidenza immotivata di Mozart verso Salieri, prototipo ai suoi occhi dell’italiano intrigante.

Succede però che l’antipatia si consumi interamente sulla carta; è il caso dell’incredibile malevolenza esercitata dal giovane Hugo Wolf (classe 1860) verso Johannes Brahms, di quasi trent’anni più anziano di lui e indubbiamente tra i musicisti viventi più celebri in assoluto quando, alla fine degli anni Ottanta, l’implume critico comincia a prenderlo di mira dalle colonne del giornale che ospita le sue recensioni, il «Wiener Salonblatt». Mai personalità furono più incompatibili: se Brahms era riservato, riflessivo, cauto nelle reazioni, Wolf era infiammabile, esagerato, intemperante; c’è anzi un fondo di tragedia, in questi atteggiamenti così estremi, perché Wolf era affetto da ciclotimia, una forma appena più leggera del disturbo bipolare; e finì i suoi giorni in un manicomio dopo aver dato in escandescenze dentro l’Opera di Vienna, davanti al suo amico di giovinezza Gustav Mahler.

«Queste sinfonie disgustosamente insulse, profondamente fasulle e contorte, sono quelle di chi si è superato nell’arte di comporre senza mai aver avuto un’idea» (Hugo Wolf)

Ripercorriamo, dunque, alcune tappe della personale battaglia condotta da uno sconosciuto compositore di Lieder contro un affermato sinfonista, che mai lo degnerà di replica. Il 2 marzo 1884 il ventiquattrenne Wolf recensisce un concerto del celebre Quartetto Hellmesberger nel corso del quale è stato eseguito anche il Sestetto d’archi in sol maggiore di Brahms: «a mio parere la cosa migliore che ha scritto». Lo si potrebbe persino interpretare come un complimento. Pochi giorni dopo, l’ascolto dell’Ouverture tragica offre l’occasione per una vera e propria analisi del brano, attraverso la costruzione di un ‘programma’ sottinteso. Qui Wolf immagina che Brahms evochi Macbeth, anzi, che lui stesso si identifichi con Macbeth, e che alluda quindi con i gemiti dei legni ai delitti commessi, simulando poi invece calma e compostezza con un tema di «studiata artificiosità».

Anche per il Quintetto op. 88 ci sono parole elogiative: addirittura pare a Wolf che, rispetto a una sonata per violino di Anton Rubinstein suonata appena prima, il Quintetto brahmsiano approdi a «un delizioso prato inondato di sole». Comincia però ad ammettere che quel che ha ascoltato di Brahms da ultimo lo ha lasciato «abbastanza freddo»; anzi, parecchie cose lo hanno addirittura respinto, «in particolare le sinfonie, che certi critici hanno talmente portato alle stelle da farsi compiangere per il cattivo gusto e la cecità». Wolf ricorda che è difficile essere davvero obiettivi, ma che tuttavia un buon critico non dovrebbe lasciarsi condizionare dalle sue amicizie personali, e magnificare lavori che sembrano prodotti sotto tortura, per poi stroncarne altri «sputandoci sopra bile per le ragioni opposte». Wolf si sente provocato dai giudizi ostili a Wagner e a Liszt, ma nel momento in cui mette in guardia dagli accecamenti preconcetti avvia una reazione uguale e contraria che lo vedrà accanirsi contro il sinfonismo brahmsiano. Nondimeno il Quintetto op. 88 sembra piacergli: la descrizione che ne fa pare uscita dalle pagine di Hoffmann, col freddo delle nebbie novembrine nell’attacco, poi il fiorire della primavera, le ombre della notte nel movimento lento, con rapidi barbagli che sembrano lucciole danzanti. E però arriccia il naso davanti al finale, dove Brahms «torna sui banchi di scuola e si ricorda del contrappunto studiato da Marxsen», una strada sulla quale Wolf dichiara di non essere interessato a seguirlo.

Johannes Brahms, che non rispose mai agli attacchi di Wolf

Passa un mesetto e un concerto che si conclude con un poema sinfonico di Franz Liszt (Tasso. Lamento e trionfo) offre l’occasione per fare il punto sul dibattito che opponeva la sinfonia tradizionale, ‘astratta’ e ben strutturata, al poema sinfonico, ispirato a un contenuto poetico e strutturato liberamente. Wolf si indigna pensando che l’invenzione sempre nuova («originale, ardita e geniale») di Liszt possa venire «disprezzata o liquidata con un cenno di derisione compassionevole», mentre «queste sinfonie di Brahms disgustosamente insulse, profondamente fasulle e contorte vengono lodate come una delle meraviglie del mondo»; ed ecco l’affondo finale: «un solo colpo di timpani di un lavoro lisztiano contiene più spirito e sensibilità di tutte e tre le sinfonie di Brahms» (all’epoca la quarta non era ancora stata scritta).

Gli argini sono ormai rotti, la battaglia dichiarata e avviata, e d’ora in poi non ci saranno più freni inibitori: anche perché comincia adesso la vera fortuna delle sinfonie di Brahms e quindi le occasioni di ascoltarle aumentano. Gli tocca, povero Wolf, subire per intero una serata che si apre con il Primo Concerto, eseguito pur magistralmente da Hans von Bülow, e si conclude con la Terza Sinfonia: unica parentesi di conforto, l’ouverture amatissima del Franco cacciatore di Weber. Ecco l’avvio sarcastico del resoconto sulla Terza: «Come Sinfonia del Dottor Brahms [l’Università di Breslavia lo aveva infatti insignito della laurea honoris causa nel 1879] è un lavoro in parte abile e meritorio; come sinfonia di un secondo Beethoven invece è un completo fallimento, perché da un secondo Beethoven si deve esigere tutto ciò che a un Dottor Brahms manca del tutto: l’originalità». Non solo: «Herr Doktor Brahms» è un sopravvissuto, un buon artigiano del contrappunto, simile però agli émigrés che si aggiravano in Europa come fossili del tempo che fu; la rivoluzione per loro è passata invano, come su di lui non ha lasciato traccia il fuoco di Schumann, di Chopin, Berlioz, Liszt e infine di Wagner. «L’uomo che ha scritto tre sinfonie e probabilmente ne medita altre sei» continua a scrivere come si faceva un tempo, lavori scritti su carta ammuffita e nati morti. Anzi, dovendo recensire pochi giorni dopo il Secondo Concerto per pianoforte, Wolf esordisce proprio con una croce funebre, spiegando poi che per digerire questo concerto ci vuole uno stomaco in grado di triturare bulloni.

Il pensiero si chiarisce di fronte alle Variazioni su un tema di Haydn, che Wolf ritiene «la testimonianza eloquente del vero talento di Brahms: quello per la manifattura artistica». «Brahms sa variare i temi dati come nessun altro … in effetti tutta la sua produzione non è che una grande variazione sui lavori di Beethoven, Mendelssohn e Schumann». Visto che Brahms decisamente non gli piace, stupisce che Wolf vada ad ascoltarlo con tanta costanza; il 22 marzo 1885 arriva lo sfogo: possibile che in tutti i concerti debba comparire il nome di Brahms? Evidentemente, suggerisce Wolf, gli esecutori devono sottostare a dei ricatti: o suoni Brahms, o non veniamo a sentirti. Gli capita poi un concerto da camera in cui collaborano un quartetto d’archi, un trio con pianoforte e infine un cantante; il «menu del concerto», come lo chiama ironicamente Wolf, prevede ben due Brahms; il primo, un quartetto, non lo ascolta nemmeno, ma non può sottrarsi al Lied, Ständchen. La dizione del cantante era pessima, commenta, ma è probabile che la poesia riproducesse il lamento di un innamorato che si annoia e che ha presumibilmente anche il mal di denti; e Brahms ha saputo rendere la noia da par suo, tanto che «tutti sbadigliavano proprio di gusto».

Finalmente anche Wolf ha l’emozione di assistere alla prima esecuzione di una sinfonia brahmsiana, la Quarta (e ultima). Sono gli ultimi giorni del gennaio 1886 e la recensione che ne offre non è solo una stroncatura, ma un attacco senza quartiere. Brahms «non si è mai saputo sollevare sopra la mediocrità», ma qui ha superato se stesso nell’arte di comporre senza idee, di cui è il più illustre esponente. Impotenza creativa, terrificante monotonia, muta disperazione di chi vorrebbe, ma non può. Fortuna volle che Brahms non fosse un critico musicale e che nessuno contrattaccasse con la stessa moneta. Le bordate velenose continuarono ancora per un anno, cioè fino a quando Wolf conservò il suo posto di critico sul «Wiener Salonblatt», e restano uno dei documenti più tragicomici di un’antitesi nata da effettive divergenze nella concezione dell’arte e trasformata in vero oltranzismo manicheo.