Ieri i lavori erano ancora in corso, vento e street food intorno al Palast che si prepara alla serata di gala piena di stelle e di star grazie all’Heil Cesar! dei Coen commedia folle su Hollywood e la produzione dell’immaginario, anche se la Berlinale col suo orso che scende dal metrò e le sacche di lana cotta grigia gadget dell’edizione 2016 ha invaso già da giorni le strade della città.

Il viso di Dieter Kosslich, il direttore, appare sorridente dai megaschermi che sovrastano l’entrata del Palazzo con la sua immancabile sciarpona rossa e spiega ai microfoni dei media nazionali il festival a venire. Centinaia di film, omaggi, subito quello a David Bowie con L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, serial tv perché si deve stare al passo con le tendenze ma soprattutto il desiderio dichiarato e ripetuto di essere un festival dentro al proprio tempo, di dialogare con la realtà. Caratteristica questa della Berlinale quasi da sempre, alla fine del Muro era divenuta una sorta di laboratorio di incontri tra est e ovest, e nei Duemila della crisi finanziaria si rincorrevano i titoli sul tema.

berlinale-66-le-misure-di-sicurezza-saranno-intensificate-251369-1280x720

Nell’anno dell’accoglienza dei profughi in Germania, voluta dalla cancelliera Merkel, delle molte polemiche interne che la decisione ha sollevato, fino alle violenze di Colonia nella notte di Capodanno, è quasi inevitabile che i migranti siano i protagonisti del festival. Una presenza e una figura che ricorre in molti film, a cominciare da quello di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, unico titolo italiano della selezione. E non è solo «arguzia» mediatica, qui la questione è davvero molto sentita, si cercano modalità di intervento, risposte, le vicende di Colonia sono state un forte trauma eppure a parte le manipolazioni politiche si ha l’impressione di un forte desiderio di confronto e anche di timori di fronte alla chiusura progressiva delle comunità che erano già qui.

Nel suo Radial System splendido centro multimediale (ecco queste sono le cose rispetto alla ricerca anche artistica che fanno la differenza e per le quali da noi in Italia non ci sono mai investimenti) ricavato da una vecchia fabbrica, la coreografa Sasha Waltz ha ripreso il spettacolo Continu, sul rapporto tra individuo e società lavorando insieme a un gruppo di profughi siriani. Le storie sono tutte vicine, morte, lutti, dolore della perdita, violenza, una fuga obbligata. Tanti sono qui da poco, non parlano tedesco e faticano con l’inglese, con sé hanno le mogli, i figli numerosi, oppure la solitudine. Nel laboratorio, e in una serie di incontri si cerca una lingua comune per raccontare questo «esodo» con una prima persona che si contrappone a quella generalizzata delle news.

È una scommessa, e la sera in cui una giornalista siriana, Jasmine Meinar è lì a dire della sua lotta insieme a altre donne per continuare a pubblicare un giornale in Siria che parla di loro – anche a distanza ora che è fuggita da Homs – la sala è pienissima, le domande si accavallano. Poi si mangia, si balla, diviene una festa, è bello pure così.

And-Ek Ghes… è il primo titolo del Forum la sezione che insieme al suo Forum Expanded è quasi un festival a sé. Protagonista è un giovane uomo rom con la sua famiglia, ma la scommessa è sempre la stessa: trovare un’immagine che contrasti la retorica ricorrente intorno a questo argomento, i luoghi comuni, anche quelli «buoni», le formulette, l’assenza di conflitto. Alla regia ci sono Philip Scheffner e Colorado Velcu, che è anche il protagonista, arrivato in Germania dalla Romania prima a Essen, poi a Berlino, insieme ai molti figli, e a altri parenti, in cerca di una nuova stabilità. Mentre la moglie è in prigione in Romania, per qualcosa che fa parte del loro passato.

berlino _414

Colorado tiene un diario, lo fa da quando ha quattordici anni, anche se in Germania scrive meno risucchiato dal lavoro e dalla vita familiare, dalla burocrazia che è complicata e dalle molte attese per ottenere sussidi, la scuola per i figli, la carta di credito, uno stipendio che non basta mai. La macchina da presa passa spesso di mano, Colorado gira e fa recitare i figli che quando li rimprovera ridono davanti all’obiettivo, e insieme alla famiglia rivede le vecchie immagini. Scheffer li filma a sua volta, i piani della narrazione si mescolano, ammiccano ai luoghi comuni, giocano con i ruoli e le fantasie, provocano la realtà. Canzoni romantiche e sceneggiate, ricordi di fughe e di amori impossibili, un video alla Bollywood e la battaglia quotidiana. Stanchezza, sconforto, ostinazione. Gli amici con le collane d’oro che sembrano usciti da un film di gangster e i parenti che se ne vanno altrove, la Spagna, l’Italia, di nuovo la Germania…

In questo entrare e uscire dal bordo dell’inquadratura, in un fuoricampo che è quello della relazione tra il regista, il protagonista e il filmare si apre uno spazio nuovo.
Non è l’ennesimo film sui rom, nella trama di suggestioni e differenti livelli possibili di realtà, l’immagine dei protagonisti si ribalta, diviene quella di una resistenza ironica e testarda.
Cosa facciamo qui? Si chiedono i due figli più grandi di Colorado, adolescenti coi giubbotti di pelle nera. Le giornate tedesche le passano sul divano a giocare col computer, gli mancano gli amici, il quartiere, la vita di prima.

Dovremmo lavorare di più invece di stare sempre in casa, dicono dando ragione al padre. Risata. Battuta da copione come quella dei ringraziamenti alla scuola e al sistema di accoglienza? Poco importa perché la linea della verità è soprattutto nella sua spudorata messinscena. Che taglia fuori l’esterno reso solo istituzione, formula astratta di moduli da compilare e protocolli da seguire. I ragazzini non li vediamo in classe con gli altri, né mai vediamo la famiglia fuori dalla comunità.

Una scelta forte di regia e di punto di vista che porta dentro quanto accade fuori (in realtà se ne parla pochissimo), lasciando trapelare una certa fatica e la necessità di tempo, forse, perché vada meglio per tutti loro. In fondo quella Germania somiglia quasi anch’essa a un’astrazione (non parlano mai tedesco o quasi davanti alla macchina da presa), a uno sfondo un po flou che si confonde con il resto delimitando una specie di confine invisibile, di distanza non detta eppure molto evidente. Rimangono i pic nic sul prato e gli sguardi stupiti dei passanti davanti al pesce rosso pescato nel laghetto del parco. Un altro gioco che appare quasi come una provocazione.