È piccolo, 100 pagine, e prezioso. È come quei gioielli per nulla vistosi che, quando ne osservi i dettagli, ti accorgi che sono raffinatissimi. La carta, la grafica, il formato, l’impaginazione, sfogliare Bestiario habanero. Itinerari sbiecati di una capitale di Davide Barilli, Oligo editore (euro 13, è prima un piacere per gli occhi e le mani, poi una scoperta per il lettore.

Appena lo apri non incontri parole, ma fotografie, in bianco e nero. Le ha scattate lo stesso Barilli con uno sguardo crudo, a volte crudele. L’interno di un bar semibuio, la facciata decrepita di un palazzo un tempo orgoglioso di sé, un vecchio che guarda il tramonto su un marciapiede del Malecòn, un cane frutto di incroci improbabili, una gallina spennata legata a una pialla, un venditore ambulante macilento come l’asfalto su cui è seduto.

SEMBREREBBERO FOTO scattate con il gusto di mostrare delle mostruosità, invece, addentrandosi nella scrittura, emerge la pietas di qualcuno, l’autore, che ama ciò che vede, che a Cuba ha dedicato molti suoi libri e, nello stesso tempo, fa agire il proprio occhio critico, la consapevolezza di essere testimone di un crollo, di un presente difficile, sicuramente di qualcosa che non è e non sarà più come un tempo, eppure resiste, «Come un corpo che invecchia ma non si rassegna.

Montato come una serie di racconti, Bestiario habanero è un viaggio fra le strade e le case di un quartiere preciso dell’Avana, Cayo Hueso. È lì che Barilli incontra galline suicide, ronzini azzoppati, galli da combattimento, uccellini muti, pipistrelli alcolici, cani bitorzoluti, cammelli a diciotto ruote, teste di maiale incastonate come inquietanti pietre miliari agli angoli delle strade, feticci, sculture, memorie hemingwayane, scrittori che si nascondono e réclame scomparse.

ALL’APPARENZA RÉPORTAGE di viaggio e racconto del presente, in realtà Bestiario habanero scava in una storia complessa, gloriosa e orgogliosa, rivoluzionaria, resistente, composta da strati diversi: gli scrittori che hanno narrato Cuba e la sua gente, la santeria, l’arte, le superstizioni, il turismo rapace e superficiale, la povertà, le energie, gli sguardi disincantati.

Nel racconto di Barilli questo quartiere dell’Avana diventa un simbolico di tutta un’isola, della sua storia e del suo destino. È un viaggio dentro una società e i suoi spazi urbani che fanno i conti con un presente fragile e un futuro incerto.

«Tornando qui, sui miei passi, anno dopo anno – scrive l’autore – non seguo più un movente preciso: lo faccio perché spinto da una contromappa ideale, quella rappresentata dal rimpianto e dal disincanto di un lento procedere delle storie».
È la testimonianza di una fine? Tutt’altro. È il racconto di come, attraverso strade tortuose, «mille difficoltà, ostacoli e contraddizioni» in quest’isola il processo dell’immaginazione non conosce confini. E finché si riesce a immaginare, significa che c’è desiderio.

E se c’è desiderio, c’è vita, nonostante le galline suicide.