L’ultimo libro di Paolo Pecere, Il senso della natura (Sellerio, 2024) è un saggio narrativo scritto in viaggio che mette insieme e ibrida con sapienza la percezione dei luoghi, riflessioni e pensieri sul futuro del pianeta, concetti filosofici sul concetto di natura e riferimenti letterari. Viaggi reali ma anche dell’immaginazione che l’autore ha fatto in alcuni luoghi dei cinque continenti, da New York a Roma, Venezia, le Galàpagos, il Borneo, l’Islanda, l’Amazzonia, la Nigeria, la Patagonia. Dentro c’è il pensiero filosofico ma anche l’avventura del viaggio e della scoperta, quella estatica dei sensi, ma anche una riflessione profonda sullo stato del pianeta e quel conflitto tra sfruttamento delle risorse e conservazione.

Ci sono luoghi dove forse si vede meglio lo stato del pianeta, quello che chiami «il futuro prossimo globale». Tu hai viaggiato per scrivere, studiare e per cercare di capire la natura del mondo, sei andato nelle città metropolitane come New York, ma anche in Africa e nella foresta amazzonica, in Indonesia, in Patagonia sulle tracce di Chatwin. Perché proprio questa mappa?
Il percorso è durato vent’anni, la mappa l’ho costruita a posteriori quando ho deciso di raccontare questa ricerca. Ci sono diversi luoghi fondamentali del nostro immaginario della natura selvaggia, come l’Amazzonia, il Borneo e l’Everest, verso cui mi ha spinto il desiderio di conoscerne la realtà oltre alle immagini da cartolina e ai miti. Ci sono poi luoghi associati all’impatto del cambiamento climatico: regioni prossime ai Poli come l’Islanda e la Patagonia, e i mari ricchi di coralli dell’Indonesia. Ma al momento di selezionare e montare i frammenti dei miei viaggi ho scelto di cominciare con tre grandi metropoli, New York, Roma e Lagos. Si tratta di tre città che hanno un ruolo importante per il presente dell’ambientalismo. Ho voluto mostrare prima di tutto il rapporto tra la nostra vita quotidiana urbana e l’esperienza dell’ambiente non industrializzato. È una transizione cognitiva che ho esplorato camminando a piedi in molte metropoli del pianeta. La scrittura del libro è iniziata durante la pandemia, quando l’emergenza globale mi ha costretto a rompere le abitudini e mi ha fatto scoprire un mondo pieno di vita nei pressi di casa lungo il fiume Aniene. È un tipo di esperienza che mi è sembrata un’anticipazione del futuro.

Il libro è ricchissimo di presenze filosofiche, scientifiche, da Thoreau, Humboldt, Darwin, Lévi-Strauss, letterarie e del pensiero ambientalista, ma anche di militanti e studiosi che oggi si battono contro governi e multinazionali come Dale Jamieson, quelli di Extinction Rebellion, l’ecofemminista nigeriana Adenike Oladosu, le brasiliane Eliane Brum e Tereza Arapium. Memorie del passato e figure del presente.
Da storico e narratore, lavoro sempre sull’intreccio di passato, presente e futuro. Ho seguito il cammino di Darwin, Humboldt, Dian Fossey, e altri naturalisti e etologi, sia nel senso di leggerne le opere, sia nel senso di visitare i luoghi dei loro viaggi. Credo che un’indagine filosofica sulla Terra non possa mancare di questa componente empirica, geografica e corporea. Ho poi scoperto che la cosa era riconosciuta di fatto dai grandi pensatori dell’ecologia. Alexander von Humboldt teorizzò proprio la necessità di passare della percezione diretta dell’ambiente a una sua analisi in termini scientifici e comparativi globali, che doveva infine portare a una comprensione più profonda del mondo. Per queste vie, oggi s’incontrano non solo viaggiatori e scienziati, ma anche attivisti: la dimensione politica del viaggio costituisce la sua dimensione più attuale, e ho cercato di dare voce a chi partecipa di una lotta per cambiare la vita umana sulla Terra, che oggi è condotta globalmente e secondo diverse prospettive, dall’animismo all’ecologia.

Hai fatto di molti viaggi, anche avventurosi, immersioni, attraversamenti, voli su piccoli velivoli, traversate. Alle Galápagos, dove vedi la balena, vai sulle tracce di Darwin e dici di osservare «la vita sulla Terra come poteva apparire quando l’uomo non c’era» Come scriveva Proust, che citi, il vero viaggio è «vedere l’universo con gli occhi di un altro, di centro altri»?
Viaggiare è il modo più efficace per aggiungere una componente sensoriale e emotiva alla conoscenza razionale. Quest’ultima la possiamo ottenere senza muoverci da casa, eppure non produce legami affettivi, capaci di modificare la nostra vita. Faccio un esempio: da bambino sentivo sempre parlare del fatto che ogni minuto l’equivalente di alcuni campi da calcio di foresta amazzonica veniva abbattuto. Calciando il pallone nei campi di calcio, a volte ho immaginato questo muro di ruspe che correva più veloce di me. Eppure, tutto questo sembrava avvenire in un’altra dimensione del mondo. Quando sono arrivato per la prima volta nel bacino amazzonico, in Ecuador, è stato un colpo per i sensi, il corpo, ho ascoltato l’assordante coro di voci di miliardi di viventi, ho incontrato la mite accoglienza dei nativi; ho sentito una volta per tutte un legame della mia vita con quel luogo. Lo stesso vale per le tante cose che veniamo a sapere sul cambiamento climatico, fino al momento in cui una catastrofe ci colpisce. Ma nel libro insisto anche sui sentimenti positivi, che devono contrastare nostalgia e ansia, per costruire un nuovo senso comune. Parlo di viaggi avventurosi, ma insisto che anche un’escursione (come le mie lungo l’Aniene) o un viaggio turistico possono essere preziose esperienza di conoscenza, se solo evitiamo che le abitudini ci facciano da schermo e accompagniamo l’esperienza con lo studio, per sapere leggere quel che abbiamo visto.

Nel quarto sentiero, «La via degli animali», rifletti anche sul nostro rapporto con questa «esperienza umana primordiale», in un tuo viaggio in Ruanda incontri i gorilla. Ma anche delle macellazioni delle filiere industriali, i miliardi di animali uccisi per i consumi alimentari. Come è cambiato nella società contemporanea occidentale il nostro rapporto con il mondo animale?
La stragrande maggioranza degli animali viventi sulla Terra oggi nasce e muore negli allevamenti di carne. Nello stesso tempo, i bambini continuano a crescere guardando animali disegnati o animati nei film, che parlano come umani. È una doppia miopia: proiettiamo troppo noi stessi, e poi neghiamo sentimenti e pensieri degli altri animali nella loro differenza. Ho lavorato a lungo per raccontare la possibilità di un approccio diverso. Confrontandoci con gli altri animali, possiamo capire molto anche di noi. Il caso dei gorilla è rivelatorio: in Ruanda, la loro relazione con i visitatori è cambiata quando gli umani hanno smesso di ammazzarli. Prima fuggivano o assalivano i pericolosi invasori. C’è stato poi un silenzioso armistizio, preparato dal lavoro prezioso di studiose come Jane Goodall e Dian Fossey. Come mi ha raccontato in Ruanda la primatologa Veronica Vecellio, le loro società non sono fissate dall’istinto, ma dinamiche. Per convivere con gli uomini hanno cambiato il loro comportamento. Se sono stati capaci di farlo loro, lo siamo anche noi.

Ormai, come scrivi, «Il taglio dei boschi in Brasile è collegato agli uragani in Texas. L’allevamento inquina più dei trasporti». Da una parte c’è quello che lo sciamano Davi Kopenawa chiama «il popolo delle merci», cioè il turbocapitalismo occidentale, dall’altro i popoli nativi animisti che difendono la foresta. Scrivi che «Bisogna auspicare che la trasformazione sia reciproca». Ma come?
Prima di tutto, non condivido l’idea che il sistema economico globale sia ormai immutabile. Questo è un mito: nella storia umana, tutto cambia, e l’ambiente ancora imporrà dei cambiamenti, nel giro di decenni. D’altra parte, finora la diplomazia globale del clima ha fallito, la resistenza di movimenti e popolazioni animiste, preziosa in diverse regioni, non basta a cambiare le cose globalmente, e la transizione energetica è piena di problemi di cui parlo nel libro. Quello che penso è che serva anche una trasformazione del senso comune, che prepari a sostenere il cambiamento: il mio lavoro vuole essere un piccolo contributo in tal senso.