Dietro i cinque grandi (Cannes, Venezia, Berlino, Locarno, Toronto) esiste un piccolo sistema di festival di media importanza e, appena più in là, una galassia di centinaia di appuntamenti minori sparsi in giro per il mondo. Questo universo è tenuto insieme da una forza. Il denaro, si dirà. Certo, ma non solo. Perché il baraccone resti in piedi, c’è bisogno di una forza complementare e opposta. I giornalisti, si dirà. Certo, ma non solo. C’è in effetti bisogno di raccontare pettegolezzi sulle star e tappeti rossi, ma anche questo non basta. Cosa allora? Ci vogliono anche i critici del cinema. Vale a dire quelli che (in teoria) parlano del contenuto dei film. Ma in cosa consiste la loro forza? Qual è il loro potere? Perché i festival si ostinano ad invitarli? Con il proposito di ricercare il fondamento del potere della critica che il documentario di Octavio Guerra si mette a seguire un critico cinematografico spagnolo, Oscar Peyrou, accompagnandolo nella sua costante peregrinazione, da una città ad un’altra, da Chicago, a Valencia, a Buenos Aires… Oscar viene invitato per parlare del cinema spagnolo, a partecipare ad una giuria del premio Fipresci (federazione internazionale della critica) o perché è da molti anni che lo si invita e quindi, per tradizione, si continua a farlo.

Ora Oscar ha deciso di non vedere più film. Durante una conferenza, davanti a una platea di tre persone, egli espone la sua teoria: entrare in sala è un desiderio perverso e regressivo. È il richiamo preistorico della caverna. Dalla sala bisogna uscire. Ma allora Oscar ha rinunciato a partecipare ai festival? Per nulla. Si può parlare di un film basando il proprio giudizio sul poster o sul cast, sostiene davanti ai propri ospiti e colleghi. Dalla teoria alla pratica: Durante una conferenza stampa chiede a Ewan McGregor se a suo giudizio «il poster rifletta correttamente il sentimento del film». La domanda è assurda. Ma la realtà lo è di più. Chi ha messo i piedi in una conferenza stampa sa che le domande dei giornalisti possono essere molto più imbarazzanti di quella di Oscar. In questo senso, la pazzia del critico che rifiuta di vedere film è solo un modo per raccontare una follia della «professione». Non ultimo, di descrivere la bolla permanente fatta di aeroporti, hotel e palazzi in cui i critici fluttuano costantemente. In questa bolla c’è molto lusso.

Ma anche un’immensa povertà. Il paradosso di molti critici è di essere poveri e precari ma sempre in contatto con un lusso sfrenato, ospitati in camere che costano per notte la metà o più del loro salario, costretti ad andare a tutte le feste per mangiare qualcosa, sapendo che l’alternativa al catering di lusso pagato dalla promozione di un film è un panino.
In questo senso, quello di Oscar è paradigma del nostro tempo e uno spaccato valido per molte professioni. Ma il film non perde mai di vista la specificità di questa professione particolare. Il critico critica. Ovvero giudica. Ma sulla base di quali criteri? Perché un critico ha autorità? È la sua conoscenza della storia del cinema? La sua capacità di analisi? Il suo successo presso i lettori? Una delle perversioni attuali è che il critico festivaliero non ha bisogno di confrontarsi con un lettore. I film che vede non li vede nessuno (o quasi). Questo film, per esempio, chi lo vedrà? A questo problema Serching for Oscar risponde con una forma molto radicale di ironia.

Il film cerca Oscar non trovandolo mai. Vale a dire non svelando mai se il suo è uno scherzo oppure una strategia. Se la sua è una posa o un vero modo d’essere. In questo, Oscar è il fratello gemello di Andy Kaufman. L’arte di Andy consisteva nel dire: il comico che fa comicità non è serio perché si prende sul serio, anche quando scherza. Si prende sul serio perché fa il comico (un po’ come il garçon de cafè di Sartre). Ora Oscar fa esattamente questo: rifiuta di fare il critico.

E questo rifiuto è radicale perché non diventa nemmeno autocritica (ché anche questo sarebbe un prendersi sul serio). La critica non dovrebbe mai diventare una professione. Il film è stato proiettato nell’ambito della Woche der Kritik nel quadro di una serata «ironia o anarchia?» in coppia con un bel corto, Air Time, di un collettivo di artisti. La serata è stata seguita da ben due dibattiti piuttosto animati, ed è stata una delle più forti della Woche senza dubbio grazie a questo film profondamente anarchico e ironico: che non si limita a criticare il potere ma a smantellare l’idea stessa di autorità.