Dodici giorni è il termine fissato in Francia entro il quale un caso di ricovero coatto in un ospedale psichiatrico deve essere sottoposto al giudice che ha facoltà di confermare le indicazioni dei medici o di accogliere le istanze del paziente. La legge è del 2013, e, come osserva Raymond Depardon, «rende pubblica una decisione che prima spettava solo agli psichiatri». Da qui comincia il suo nuovo film, pensato insieme alla moglie Claudine Nougaret, 12 giorni – proiezione speciale anche se una delle proposte migliori viste finora nella selezione ufficiale – in cui il regista e fotografo francese ritrova la materia e la struttura narrativa di altri suoi documentari come San Clemente, Urgences o Fait Divers. Siamo nell’ospedale per malattie mentali di Vinatier, a Lyon, lunghi corridoi asettici e deserti, porte chiuse, nessun rumore, solo ogni tanto l’eco ovattata di un grido, di una musica.

Nella stanza degli incontri il paziente discute con il giudice – se ne alternano quattro, due donne e due uomini, ciascuno con un approccio diverso – assistito da un avvocato. Ogni storia si somiglia, racconta un dolore, parla di emarginazione, solitudine, violenza familiare, sociale, morale.

Ci sono casi ordinari e casi «estremi» – un uomo continua a chiedere di vedere il padre che ha ucciso anni prima – giovani e anziani, qualcuno lì da anni, quasi tutti senza qualcuno che si occupi di loro, sembrano poveri, senza mezzi, con la fragilità di chi si deve giustificare. Una ragazza chiede di vedere la figlia, ha sofferto tutta la vita, vorrebbe che la bimba non segua il suo destino, non accetta di essere rinchiusa, rivendica il diritto di essere curata fuori di là, seguita da assistenti sociali e psicologi – «Sono stata male a Natale un periodo orribile per me» dice rivolgendosi al regista, in macchina, che ringrazia per il caffé.

Quello che interessa Depardon non però sono le singole storie in sé ma quanto rivelano nella pratica della cura messa in atto rispetto alla malattia mentale dall’istituzione. Nessuno dei pazienti interpellati verrà fatto uscire dai giudici che si trovano sempre d’accordo con l’avviso dei medici di prolungare il ricovero. Alcuni malati sono consenzienti, come una donna esplosa un giorno all’improvviso in ufficio e fatta internare dai suoi colleghi. Lavora per una multinazionale telefonica, accetta l’avviso dei medici senza alcuna resistenza, anche se trovarsi legata e spogliata delle sue cose «in un attimo» come è accaduto quando l’hanno portata in ospedale è stato un trauma brutale. Di lei dicono che è paranoica, lei però imputa il suo stato allo stress sul lavoro, alla pressione insopportabile di un capo che l’ha tormentata fino a farla crollare nell’indifferenza di tutti gli altri. Non sarebbe così strano specie poi in una azienda come la sua, eppure. Un uomo invece vuole uscire, chiede di continuare i suoi trattamenti con lo psicologo che lo seguiva prima. Si rivolge alla macchina da presa e al rifiuto della giudice la ringrazia per «l’abuso di potere».

Depardon filma  «a lato» senza nascondersi (anzi dichiara la sua presenza in alcuni passaggi), il suo punto di osservazione non sceglie una parte o l’altra del tavolo, non enfatizza i ruoli. Bastano i farmaci a «curare» anni di disagio abusi, grovigli che si radicano nel profondo? Le lotte di Basaglia hanno già risposto, e non è nemmeno questione di un giudice, di un occhio esterno perché – lo dicono loro stessi – non siamo in tribunale.Stordire, imbottire di pillole, annichilire la volontà. O invece resistere con una «cura» che affronta il trauma, vi guarda dentro, implica necessari altri passaggi e trasformazioni sociali, la cura come consapevolezza sociale, espressione di un cambiamento al di là del paziente. «Sorvegliare e punire», la disciplina che condanna il corpo: è questo che 12 jours mette a fuoco con precisione (e Focault è il riferimento citato in apertura del film), con un dispositivo di cinema preciso fatto di ascolto e di sensibilità.