L’uscita del saggio A Radical Normal. Propositions for the Architecture in the City (Dom Publishers, pagg. 200, euro 28) è l’occasione per un incontro, nel suo studio milanese, con Vittorio Magnago Lampugnani, che qui torna a esporre una serie di questioni cardine sul futuro della progettazione e su alcuni temi con i quali l’architettura dovrà misurarsi per affrontare i problemi complessi sia della transizione ecologica, sia del superamento del disagio abitativo: dall’aggressione della finanza verso ciò che resta dello spazio pubblico al disinteresse per l’abitare sociale.
Tutti argomenti interagenti tra loro di cui nel libro si raccolgono i passaggi salienti ma che meriterebbero di essere ancora più approfonditi affinché il dibattito pubblico sull’architettura fuoriesca dalle convenzioni accademiche e dall’immobilismo delle istituzioni, per giungere a coinvolgere i cittadini con i loro bisogni per una città più giusta.

Vittorio Magnago Lampugnani

La prima domanda riguarda ciò che resta del «progetto moderno». Quali sono gli aspetti che in coerenza o in discontinuità permangono con la sua eredità nell’architettura contemporanea?

La modernità architettonica intesa come progetto storico è qualcosa che si ha sempre davanti anche se si fa qualcosa di diverso. Per me, tuttavia, il Movimento Moderno resta un riferimento importante almeno per due ragioni. La prima riguarda l’intensità e la serietà della ricerca per capire il mondo e trasformarlo in linguaggio architettonico. La seconda ragione si riferisce all’ottimismo e alla speranza: l’idea che sostiene la modernità è quella che l’architettura deve contribuire a migliorare le nostre condizioni di vita. Detto ciò, una grande differenza separa il pensiero degli anni Venti dall’oggi, considerando la catastrofe verso la quale sta andando il pianeta. Senza parlare poi delle profonde disuguaglianze che si pensava di avere eliminato e che sono invece peggiorate ovunque. Il tema è quale contributo può dare l’architettura per reagire a questa prospettiva di futuro senza ridurla a come espandere la città o far crescere gli alberi sugli edifici. Ciò vuole dire ricercare un linguaggio nuovo, come accade nel 1927 al Weissenhofsiedlung, dove gli architetti mostrarono un modo diverso di esprimersi.

Quali sono allora i temi che adesso più la impegnano?

Certamente, la sostenibilità. Ciò significa per l’urbanistica tornare alla città compatta e per l’architettura indagare linguaggi, spazi e tipi di costruzioni che ci consentano di raggiungere la migliore vivibilità con il minore spreco. Purtroppo questi temi sono travisati e utilizzati dalla speculazione immobiliare: il greenwashing ne è una manifestazione. Un esempio è quello che ho vissuto io stesso con un investitore che richiedeva l’introduzione di una serie di sistemi avanzati di componenti edilizi per ottenere quella certificazione idonea a garantirgli la vendita del suo immobile. Succede che questa serie di artifici rende la costruzione più costosa e complicata e a ben guardare con ricadute sull’ambiente non sostenibili, senza contare la breve durata di vita di un edificio: la questione della durabilità è un mio pensiero fisso.

Lei pone l’accento sul binomio progetto e mestiere. Considera il progettista un artigiano «colto» legato alla tradizione. In una realtà dove nessuno sembra più interessarsi alle tecniche artigianali come si presenta questo nuovo progettista sempre più dipendente dalla tecnologia?

Non è un caso che l’industria – sistema controllato e collegato ai grandi investitori – marginalizzi tutta la tradizione costruttiva. Tuttavia sta succedendo come per il cibo: una nuova sensibilità progredisce nella società e il mercato vi si sta adattando. Vorrei essere ottimista assistendo a un ripensamento su molte scelte operate dall’industria.

La scuola quale ruolo gioca nella trasmissione di questo sapere tecnico svincolato dalla storia?

Dipende molto dai docenti. Ad Harvard, dove di recente sono stato, pensavo di svolgere un seminario trattando i temi della sostenibilità collegati alla progettazione, ma ho dovuto costatare che gli studenti erano molto più avanti di me: disinteressati ai temi della composizione, piuttosto attenti alle strategie di risposta alle condizioni ambientali. In un mondo che si sta autodistruggendo, i giovani sanno meglio mettere a fuoco i problemi della realtà rispetto alla nostra di generazione.

Lei è tra i pochi rimasti a teorizzare un’architettura dalla «nuova semplicità» e durevole che contrasti l’eccesso di edonismo formale presente nelle nostre città. Non le pare che questa sia ormai una battaglia persa vista la tendenza?

Certe scelte formali sono delle scorciatoie per delle architetture accattivanti, magari di successo. Continuo a pensare che avesse ragione Loos quando disse che l’architetto è «un muratore che sa il latino». Credo che il mestiere sia il punto di partenza del nostro lavoro.
Riguardo il fatto che sia una battaglia persa, non sono d’accordo. È ancora troppo presto perché si misuri l’invecchiamento di molte di queste architetture stravaganti. Lo spreco di materiali è dettato dalle mode. Vent’anni fa ancora potevamo scegliere e vi erano degli spazi per un’architettura della semplicità. Oggi questi spazi si sono ridotti e vi è l’imperativo categorico di invertire la tendenza. È una questione inevitabile e necessaria perché un’architettura sia più frugale e sostenibile.

Nel suo libro scrive che «le città sorgono dove gli interessi pubblici sono prioritari rispetto a quelli privati»; tuttavia il processo di finanziarizzazione delle aree urbane contraddice questo assunto.

Il piano urbanistico parte da presupposti politici ed economici. Alla base del progetto urbano c’è l’interesse pubblico, ma le amministrazioni sono state svuotate di qualsiasi potere decisionale. Accade che per la città non ci sia un disegno unitario per cui ogni terreno è sviluppato nella sua massima capacità edificatoria senza alcun collegamento con ciò che gli sta intorno. Abbiamo così delle isole dense e scollegate che, nell’insieme, producono una perdita di urbanità. Questo in sintesi è il meccanismo, ma la qualità del progetto urbano richiede una visione complessiva e un ordine che parte dalla definizione degli spazi pubblici, ai quali si devono relazionare le iniziative del privato. Si parte dalla città e si arriva all’alloggio. Se il privato costruisse all’interno di un piano urbanistico rispettoso dell’interesse pubblico, ne guadagnerebbe perché il contesto è importantissimo. Questo il dilemma in cui ci troviamo.

Per finire, un focus su Berlino che lei conosce molto bene. Come giudica il Museum der Moderne di Herzog e de Meuron e il Castello di Berlino di Franco Stella?

Ci sono due aspetti : uno è quello urbanistico, l’altro è architettonico. Si può riconoscere una tradizione che va dalle caserme d’affitto del piano di Hobrecht, ma con il piano della ricostruzione del dopoguerra gli esiti sono stati nefasti se pensiamo a come le grandi infrastrutture – e tra queste il muro – hanno diviso la città. Anche Berlino va avanti a pezzi e il Kulturforum, che è uno spazio composito della città fatto di tanti oggetti, oggi vede l’aggiunta di uno più contemporaneo: quello di Herzog e de Meuron.
Sul Castello di Berlino penso che il problema non sia tanto quello della ricostruzione, piuttosto è discutibile la finalità di quell’operazione non avendone saputo indicare con precisione le funzioni. È indubbio che in quella parte della città si fosse creato un horror vacui che rappresentava il passato della Ddr che andava in qualche modo risolto. Ora bisogna aspettare e capire come cresce il centro di Berlino in particolare dal lato urbanistico e sociale, non tanto da quello architettonico.

Quindi la città come oggetto di preoccupazione e cura…

Vorrei ricollegarmi a quello che ho detto all’inizio quando parlavamo del Movimento Moderno. Dobbiamo orientarci a riflettere sul sistema circolare delle risorse che allora, in una ridotta cerchia, era già stato intuito come un problema da risolvere. In sintesi non è più possibile adottare il criterio dell’«usa e getta» in ciò che si costruisce. La chiave del consumismo può essere adottata per comprendere il grave errore, scientificamente illustrato da Reginald Bolton (Building for profit, New York 1911, ndr.), dell’obsolescenza fisica ed economica di un edificio. Il Movimento Moderno fece propria questa teoria connessa alla deperibilità dell’architettura, enormemente dannosa soprattutto per la città che si frammenta, si spoglia e impoverisce.

Brevi note biografiche

Vittorio Magnago Lampugnani (Roma 1951) apre il suo primo studio nel 1980 a Berlino e Milano. Nel 2010 a Zurigo costituisce con Jens Bohm la Baukontor Architekten. Dal 1980 all’84 è consulente scientifico per l’Iba – Internationale Bauausttlellung, l’ente preposto a costruire nuovi alloggi a Berlino ovest dove realizza il complesso per uffici «Block 109». Progetta a Graz il complesso di appartamenti, Maria Lankowitz, (1995-1999, con M.Dörrie e M.Regner), a Basilea il Campus Novartis (2001), a East Hanover, New Jersey, il Parcheggio multipiano (2013), a Zurigo, il Quartiere Richti (2013, con J. Bohm e F. Porsia), Edificio per uffici in Schiffbauplatz (2015). Ha svolto attività di insegnamento e ricerca. Dal 1990 al ’95 ha diretto il Deutsches Arkitekturmuseum di Francoforte e la rivista Domus dal 1992 al ’96. Tra i suoi libri pubblicati in Italia «La realtà dell’immagine. Disegni di architettura nel ventesimo secolo» (Ed. di Comunità, 1982), «Renzo Piano. Progetti e architetture. 1987-94» (Mondadori Electa, 1995), «Modernità e durata» (Skira, 1999), «Frammenti urbani» (Bollati Boringhieri, 2021).