Wind of change è una canzone abbastanza famosa composta e cantata dal gruppo tedesco Scorpions nella temperie europea del 1989, dopo il crollo del muro di Berlino e le speranze di maggiore libertà per tutti che aveva suscitato.

Winds of change è il titolo di un Cd uscito da poco che raccoglie composizioni di Roberto Laneri (sassofonista e polistrumentista), eseguite e improvvisate con lui dalla cantante Giuppi Paone, dal bassista Alessandro del Signore e dal pianista Stefano Diotallevi.

Non so se il titolo di questo album contiene una citazione esplicita e una voluta declinazione al plurale. Venti di cambiamento. Mi verrebbe subito da dire che rispetto al cambiamento un po’ a senso unico – e per tanti versi deludente e altamente problematico – seguito al fallimento del “socialismo reale”, quello suscitato dal ’68 nasceva da una pluralità di spinte e si apriva in tante diverse direzioni.

Parlo del ’68 perché è questa la data di composizione del primo pezzo del Cd, Canone perpetuo, che ho ascoltato dal vivo la settimana scorsa nella grande “sala delle colonne” della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. A pochi passi dagli strumenti e dai musicisti si poteva accedere alla mostra sul ’68 è solo un inizio (che si è conclusa l’altro ieri).

E Laneri ha tenuto a sottolineare che la propria formazione è radicata in quel periodo e in quelle esperienze di vita e di cultura, tra l’altro da lui vissute nell’America della contestazione e del Jazz di Charlie Mingus (e di molti altri).

Ho ascoltato un Jazz assai particolare, ma indiscutibilmente Jazz. Dalla polifonia “bachiana” di Canone perpetuo (sulla quale Diotallevi ha improvvisato facendo gradualmente emergere dal fraseggio quasi barocco una certa anima swing), all’ultimo brano, che da il titolo al disco, composto nel 2016, attraverso varie escursioni in timbri, armonie e ritmi carichi di suggestioni “globali” (India, Australia, Africa, Mediterraneo, oltre alle modalità “classiche” del Jazz filtrate da una dimestichezza con la musica occidentale contemporanea: non è mancata l’evocazione dell’uso del “canto armonico”, praticato da Laneri, nella Stimmung di Stockhausen).

Il Jazz è nato come una musica “ibrida” e densa delle più varie contaminazioni. Ho sempre avvertito in quella variabile indeterminatezza armonica e melodica del blues inventata dai musicisti afroamericani il linguaggio di una immensa apertura.

«Ma è con il ’68 – ha detto a un certo punto Laneri – che nella musica sono crollati i divieti del “questo non si può fare”, oltre le barriere di generi e stili. Tra i musicisti più diversi è nata la voglia di conoscersi, di suonare e capirsi insieme… e certo mi divertivo di più!».

Ma la musica da soddisfazione anche quando – cioè molto spesso – impone discipline difficili. Giuppi Paone ha detto delle indicazioni molto severe che riceve sull’uso della propria (ricchissima) voce da parte del compositore. «Mi sento uno strumento; fino a quando mi si dice: fai un po’ tu… allora ridivento io e mi metto a giocare. Ma sto a mio agio in un sentiero stretto».

Chissà, forse è proprio in un “gioco stretto” tra quanto è “obbligato” e quanto è “libero” che andrebbe svolta una riconsiderazione di che cosa è davvero stato, mezzo secolo fa, quel cambiamento. Da parte di chi l’ha vissuto, di chi ne è stato preso in contropiede, di chi lo ha solo sentito raccontare, o lo ignora quasi completamente. Il vento si vince, o al vento ci si abbandona. Anzi, lo si ascolta. Già nel ’63 Bob Dylan non cantava che chi voleva reagire a guerre e violenza doveva cercare risposte blowin’ in the wind?