«L’alternanza scuola-lavoro serve a una rieducazione degli studenti – afferma Valeria Pinto, docente di Filosofia teoretica alla Federico II di Napoli e autrice del fortunato libro Valutare e Punire – è un dispositivo che trasforma l’idea di conoscenza, dell’insegnamento e dell’apprendimento».

In che modo?
Basando la formazione sull’idea di «progetto». Questa, in fondo, è la forma del lavoro attuale, non si fa nulla che non sia contenuto in un progetto attraverso il quale si definisce il risultato, gli strumenti e l’impiego del tempo. È un educazione al pensarsi come veicolo di un progetto, non come soggetti critici e autonomi. Lo studente obbligato all’alternanza con il lavoro è considerato lo strumento per la realizzazione di un progetto, non è lui stesso il progetto di una vita.

Gli studenti in piazza hanno denunciato il carattere di sfruttamento e il lavoro non pagato e la riduzione del sapere a merce…
Hanno ragione, ma non sono pochi i casi in cui quello che chiamano lavoro non serve a niente.

Ad esempio?
Tra le denunce degli studenti esiste un’ampia casistica di progetti sulla carta dove sono impiegati in attività inutili o all’inattività. Un’utilità tuttavia esiste e consiste, come dicevo, nella rieducazione. Il suo obiettivo è quello del disciplinamento dei ragazzi e della loro trasformazione antropologica in progetto.

Ma quale razionalità ha un sistema di questo genere?
Mostrare come l’unico principio regolatore, l’unica mentalità possibile, sia quella di un mercato del lavoro a cui piegarsi. Dove non può esistere nella vita delle persone nulla di eccentrico e dove nulla deve sfuggire al progetto. Tutti gli aspetti della vita di una persona devono rientrare in logica ferrea.

I sostenitori dell’alternanza sostengono che il sistema riavvicina la scuola al lavoro e risolve un problema storico in Italia: la separazione tra la teoria e la prassi…
Questo avviene solo in apparenza. In effetti il sistema si presenta come un superamento della divisione tra teoria e prassi, tra lavoro manuale e intellettuale. Ma questo non avviene.

Perché?
Perché non c’è un rapporto tra l’idea astratta del lavoro e la realtà di ciò che si è e ciò che si fa. La separazione che si voleva superare invece è confermata. Un lavoro invece non dovrebbe essere staccato da una funzione formativa.

Che tipo di effetti ha questa impostazione sull’insegnamento?
Lo rende sempre più nozionistico, basta vedere i manuali di storia, filosofia. Sono veicoli di informazioni e dati, una semplificazione sconcertante.

Quale sarà l’impatto di questo esperimento di massa sul futuro della scuola?
Ci troviamo di nuovo a che fare con il disciplinamento nella sua accezione più inaspettata. Pensavamo che la società disciplinare fosse superata e invece sta riemergendo. È accompagnata a fenomeni regressivi che emergono in alcuni regolamenti scolastici che hanno un carattere carcerario. Con questa idea di formazione i ragazzi sono ricondotti all’ordine e alla disciplina.