Quale siano le intenzioni di Magnus Von Horne, regista svedese, che ha iniziato il suo cammino cannois alla Quinzaine (The Here After, 2015), passando poi alla competizione (Sweat, 2020) bastano le poche inquadrature che aprono La jeune fille a l’aguille,  in corsa per la Palma d’oro: quelle immagini verticali dalle quali sovrasta i suoi personaggi, incapsulati in un bianco e nero vacuo e tra tecniche che ne deformano i corpi e i volti.

Un sadismo pseudo-artie, gonfiato da fantasie di trasgressione che si risolvono unicamente in una sorta di compiaciuta tortura, soprattutto sulla sua protagonista, una giovane donna, Karoline (Victoria Carmen Sonne) – ma torturare i personaggi femminili, sempre al centro delle sue storie,  sono un po’ il refrain del regista, anche l’influencer di Sweat era piuttosto crocifissa.

Qui però il livello si alza e  Karoline concentra in sé il manuale della donna disgraziata: operaia sbattuta fuori dalla soffitta che non è più in grado di pagare, sedotta dal padrone della fabbrica, quando scopre di essere incinta lui le promette di sposarla ma la madre nobile non può tollerarlo e così viene sbattuta fuori Lei prova a abortiree in un bagno pubblico usando un ferro da calza e una donna le viene in  aiuto, promettendole di sistemare il bambino quando sarà nato.

Ma in questa sua collezione di banalità senza nemmeno il gusto dell’horror è lui il primo a disumanizzare con compiacimento i personaggi

SIAMO a Copenaghen nel 1918, la Prima guerra ha indurito volti e cuori, alcuni li ha divorati come quello del marito di Katherine che ricompare con un volto “mostruoso” per gli altri che preferiscono non guardare, o vederlo come un’attrazione freak nel circo. Ecco è su questo concetto di “mostruosità” che pretende di  lavorare Von Horne o di disumanizzazione, continuando nella sua storia che  porta la sua povera eroina nella casa di colei che si rivela  una “strega” di memoria fiabesca, vende bon bon e uccide neonati, strafatte entrambe presto di etere per alleviare i dolori.

Ma in questa sua collezione di banalità senza nemmeno il gusto dell’horror è lui il primo a disumanizzare con compiacimento i personaggi creando uno spazio vuoto nel quale ogni elemento sonoro e visivo – pensiamo alle sovrimpressioni nella cornea di un occhio – appare privo di senso, incapace di centrare i propri obiettivi (anche se non è chiaro quali). Rimane un interrogativo: perché selezionarlo nel concorso?