È nato nel 1934 in una famiglia di antiquari e galleristi nella Parigi ebraica e cosmopolita dell’epoca. È stato un ragazzino in fuga dal nazismo, un frequentatore assiduo di musei, un tecnico tessile e pure un uomo minacciato dal terrore della lunga notte argentina. Jorge Helft, che ora di anni ne ha 88, sembra uscito dalla porta del ’900 con una curiosità da adolescente e una collezione di migliaia di opere d’arte.

Bisogna fare un passo indietro. Gli Helft sono arrivati a New York col cuore in gola nel 1940 e ci sono rimasti sette anni; poi si sono spinti verso sud, Buenos Aires, che è diventa la vera patria di Jorge, dove è rimasto fino al 2016, preferendo poi dividersi tra Montevideo e la capitale francese delle sue origini. Lui ama ricordare di aver lavorato per trent’anni nelle fabbriche tessili della periferia di Baires, «dieci ore al giorno, sei giorni su sette», dice, senza mai dimenticare la passione per l’arte.

E proprio da quella passione ha cominciato la sua seconda vita: oggi è tra i più riconosciuti collezionisti al mondo, forse il più importante in America Latina. E protagonista della vita culturale nel Cono Sur: è stato presidente della Fundación San Telmo, direttore della Fundación Antorchas, tra i fondatori della Fundación Teatro Colón.

Proprio dalla collezione di Jorge e Sylvie Helft, arrivano le settanta opere in mostra al Masi di Lugano, una straordinaria raccolta di disegni e incisioni di Paul Klee (visitabile fino all’8 gennaio 2023). «È stato un disegno di Paul Klee la prima opera non argentina che ho comprato. Era il 1970. Avevo già raccolto molti lavori di artisti del mio paese, gli unici che mi potevo permettere. Solo grazie a una buonuscita dell’impresa dove lavoravo, sono arrivato a quel Paul Klee».

Cosa la affascinava di quell’artista?

Credo mi abbia sempre attirato il tratto che aveva Klee, quel gusto per l’ironia e la musicalità. Forse per questo Mario Botta, che ho incontrato qui a Lugano, ha definito «una forma fantastica» il mio approccio a Klee. A quel tempo in Argentina l’interesse per l’arte era molto trascurato, non c’era un vero mercato. E io cercavo qualcosa che mi emozionasse. A dire il vero, quando glielo dissi a mio padre rimase un po’ deluso. Lui ha rappresentato la mia guida nel mondo dell’arte. Mi aveva portato a casa di Picasso, di Braque, era molto amico di Matisse, era stato socio di una galleria d’arte tra il 1933 e il 1939, chiusa poi per la guerra. A New York mi portava ogni domenica al Metropolitan e al Moma. Ho respirato arte da sempre. Mio padre era un antiquario e un esperto internazionale di argenteria francese del XVII e XVIII secolo: ricordo che venivano da ogni parte, degli Stati Uniti e dell’Europa, per consultarlo su ogni pezzo antico. Era molto legato a mio zio che era invece un mercante d’arte, gallerista di Léger, Picasso, Chagall ed entrambi conoscevano personalmente i migliori artisti della loro epoca. Insomma, io non ho nessun merito, ma posso dire che frequentare la casa di Braque o di Picasso era come andare da un vicino di casa.

Quando ha pensato di costruire una sua raccolta personale?

Quando mi sono sposato, avevo 21 anni, ho comprato delle litografie per decorare casa, niente di lussuoso. Con mia moglie abbiamo viaggiato a Parigi e comprammo litografie di Calder, Matisse, Chagall, Picasso. Era la metà degli anni ’50: tornati in Argentina, ho cominciato a comprare opere della mia generazione di artisti argentini, non figurativi. Poi mi sono interessato molto a Xul Solar che era grande amico di Borges: da quel momento è davvero cominciata la mia collezione.

Ma come si fa a costruire una collezione così importante?

Dopo tanti anni nel mondo dell’arte, sono arrivato a pensare che solo se uno si lascia guidare dalla propria sensibilità può creare la sua collezione. Ogni raccolta è diversa: se è davvero autentica, ognuna ha un motivo per esistere e brillare. Paragono sempre l’arte al cibo. Immaginate di essere al ristorante: a uno piace la carne con le verdure, a un altro la pasta. È questione di gusti, di passioni diverse. Il problema allora è definire cos’è arte. Credo che Duchamp ci abbia aiutato a capirlo, indicandoci come discrimine ciò che ci suscita emozioni: lo si sapeva anche prima, ma lui lo ha messo a fuoco una volta per tutte.

Cosa significa allora essere un collezionista nel secolo XXI?

Ognuno ha le sue buoni ragioni per esserlo. Però non salvo quelli che considerano l’arte come merce qualsiasi da comprare e rivendere seguendo i prezzi di mercato: quello non è collezionismo. Certo, anche a me interessa l’aspetto economico, ma non la speculazione. I collezionisti che ho conosciuto, come Giuseppe Panza, Dominique de Menil, Peggy Guggenheim e altri che non ho incontrato, hanno tutti lasciato un segno importante. Basta leggere quello che hanno scritto o guardare semplicemente il lascito delle loro raccolte d’arte. Le collezioni evolvono con il gusto e con la vita, si compra cercando ciò che provoca un profondo piacere.

Lei ha acquistato solo opere del Novecento?

Non solo. Nell’ultima tappa del mio collezionismo, diciamo gli ultimi vent’anni, ho raccolto incisioni originali dell’Ottocento. Ho iniziato con Goya, che mi sembrava la cosa più logica, e ho raccolti molti lavori. Poi ho aggiunto Honoré Daumier, James Ensor e altri. È una collezione che mi dà una grande soddisfazione. E non necessita di molto spazio. In realtà, ho iniziato quasi per caso. Ero a New York e in una galleria mi hanno offerto una copia straordinariamente bella dell’Apocalisse di Albrecht Dürer. Non ero sicuro, allora ho chiesto la consulenza di due esperti ed entrambi mi hanno rassicurato. Si tratta di lavori del XVII secolo, anche se fanno parte di una serie del 1498 e 1512. Da allora ho cambiato tre volte il mio domicilio e sempre questi lavori mi accompagnano, me li tengo sulla scrivania.

Qual è stata la maggior sfida in Argentina nel suo impegno da «collezionista»?

Forse il fatto di essere un paese che vive una crisi permanente. Penso al Teatro Colon: a lungo è stata l’istituzione d’arte più prestigiosa di tutto l’emisfero sud, fino alla costruzione dell’Opera House di Sidney; ebbene io sono testimone di quando il Colon era importante tanto quanto New York o Parigi o la Scala a Milano e poi ho visto stagioni in cui il Teatro non poteva permettersi neanche di pagare gli artisti. L’Argentina oscilla sempre in alto e in basso. A un certo punto ci siamo stancati di vedere come ogni promessa di cambiamento non portasse mai a qualcosa di positivo. Nel 2016 siamo andati a Montevideo. Con mia moglie abbiamo messo radici un po’ lontani ma abbastanza vicini a un luogo dove ho passato tutta la vita e che non potevo dimenticare. Lì ci siamo impegnati a fornire nuove energie alla vita culturale. Ci siamo presentati alle istituzioni culturali, mia moglie è una soprano e insegna musica, ha fatto vari concerti, ha insegnato all’università.

Sylvie e Jorge Helft davanti alle opere della loro collezione allestite al Msi di Lugano

Degli anni della dittatura cosa ricorda?

Ero un oppositore, sono stato minacciato anonimamente in piena notte. Siamo fuggiti e ci siamo rifugiati per otto mesi a Parigi, vicino ai miei genitori che ancora erano in vita e con i miei figli. Quando siamo rientrati abbiamo saputo che quella stessa notte erano state minacciate più di duemila famiglie. E poi c’erano i ricordi. Ricordo ancora vivamente quando siamoscappati da Parigi nel 1940, avevo solo sei anni, prima in Spagna, e da lì in Portogallo e dopo tre mesi la partenza per gli Stati Uniti. Eravamo ebrei, anche se i miei genitori erano laici e non ho mai avuto nessuna educazione religiosa. E dovevamo andare via.

Lei è stato un pioniere del collezionismo d’arte in America Latina. Com’è il panorama oggi?

Penso ci siano ancora pochi collezionisti, purtroppo. Ricordo che mio padre a New York, nei primi anni ’40 era riuscito a ricostruire buoni affari, anche perché i suoi clienti erano europei rifugiati. Dopo la guerra, in molti rientrarono, ma lui decise di rimanere e poi di trasferirsi in Argentina. Qui ritrovò suoi vecchi clienti, ma dovevano temere un profilo basso sotto il peronismo. I miei genitori rimasero otto anni a Buenos Aires, partecipando attivamente alla vita culturale, ma senza trovare riscontro alle loro aspettative. È stata dura anche per me convincere uomini d’affari e imprenditori giovani ad amare l’arte e a diventare collezionisti. Devono imparare, commettere errori, provare.

Esempi che l’hanno sorpresa?

Sì, ci sono delle eccezioni straordinarie. In Argentina ad esempio il Malba costruito da Eduardo Costantini, è un museo privato aperto al pubblico, che è riuscito a mantenere una qualità di livello internazionale. In Uruguay quest’anno è stato inaugurato un museo splendido, finanziato dallo scultore Pablo Atchugarry: dieci anni fa si era ripromesso che se fosse diventato famoso, avrebbe restituito al paese la metà delle risorse ricevute dalla vendita delle sue opere. E così è stato, a Punta del Este, a 120 km da Montevideo. Sono coinvolto come consigliere e come curatore delle prime due mostre, una dell’argentino León Ferrari, Leone d’oro a Venezia nel 2007 e poi quella di Christo e Jeanne-Claude, amici miei per oltre 50 anni. Alla fine, continuo a credere nel fermento di questi paesi. Del mio paese.