Nella retorica che accompagnò il regime mussoliniano, la marcia su Roma del 1922 costituì, al medesimo tempo, il punto di arrivo del percorso di ascesa e affermazione nell’arena pubblica del fascismo movimentista come anche l’evento primigenio della sua ventennale dittatura. Per la sua valenza simbolica, è a tutt’oggi ricordata come un avvenimento periodizzante, a prescindere dalla sua reale e concreta consistenza. In essa, ovvero nella sua natura ibrida, sospesa tra truce espressione di forza, esibizione squadrista ma anche confusa kermesse pubblica, si celebrava la compromissione dei poteri costituiti con quella disintegrazione, dal di dentro, degli ordinamenti legali, attraverso la quale il partito fascista iniziava ad esprimere in misura definitiva la sua dirompente presenza sulla scena italiana.

IN REALTÀ, la triste pochade che si consumò tra il 27 e il 31 ottobre, con la sfilata nella capitale di gruppi paramilitari abborracciati e improvvisati, segnava soprattutto la pesante collusione che si stava producendo, e quindi apertamente formalizzando, tra l’istituzione monarchica, un declinante Stato liberaloide (più che liberale), le corporazioni industriali e produttive e gli apparati della pubblica amministrazione. La marcia, che da questo punto di vista è momento d’avvio del passaggio fascista dalla condizione eversiva a quella della sua «normalizzazione», quindi dall’antistato allo Stato, cristallizza in una serie di immagini in rapida successione il ribaltamento e l’annichilimento, per opera delle stesse classi dirigenti non fasciste, del sistema istituzionale di garanzie della libertà.

Il feroce e criminale antisocialismo, che dal 1919 è tratto genetico del fascismo, rivela così non solo la sua natura di strumento di competizione per il controllo dello spazio pubblico, attraverso la neutralizzazione delle rappresentanze partitiche, sindacali e cooperativistiche del movimento dei lavoratori, ma anche la sua vocazione liberticida, che si rivolge poi contro i medesimi ordinamenti pluralistici. A Mussolini viene infatti concessa una delega, di cui lui e i suoi uomini si serviranno abbondantemente, non solo per incapsulare il conflitto sociale ma per dare risposte all’incapacità delle istituzioni pubbliche di governare i processi di massificazione che il binomio tra industrializzazione e guerra aveva rafforzato.

LA MOBILITAZIONE fascista, che si irrobustisce nel 1920 con gli scontri nelle campagne e il «fascismo di confine» e che poi si consolida nel 1921 con la costituzione del Partito nazionale fascista, trova quindi nella marcia su Roma una vera e propria matrice di legittimazione. Chiarito che nessun golpe si consumò allora, è bene quindi spostare il fuoco sui vasti terreni di compromissione e convergenza tra i diversi protagonisti. Benché il fascismo rimanga, non solo come oggetto storiografico ma anche e soprattutto in quanto soggetto storico, un attore autonomo, capace di produrre un’identità mutevole, camaleontica, tanto proclive all’accomodamento con ciò che sa di non potere gestire quanto implacabile nell’azzerare i suoi antagonisti, esso germina e si consolida negli spazi che gli sono lasciati aperti degli interlocutori istituzionali. La lunga stagione antisocialista, così come la «normalizzazione» dei territori del confine orientale, recentemente acquisiti dal Regno d’Italia, sono due indici di una condotta sostanzialmente uniforme, che accompagnò, nelle sue diverse stagioni, il mussolinismo e quanto gli ruotava intorno.

Con la marcia su Roma, quindi, l’istituzionalizzazione di una violenza eversiva, che veniva ora incorporata dentro apparati statali in via di riassetto autoritario, si riallacciava ai percorsi di rigenerazione dell’identità italiana attraversata dai numerosi tumulti del dopoguerra. Ben lontana dal costituire una risposta alla flebile e minoritaria vocazione rivoluzionaria, che anche nel nostro paese si era manifestata con la costituzione del Partito comunista d’Italia, la reazione fascista fu soprattutto duplice risposta alla crisi istituzionale e al panico morale dei ceti medi del tempo. Di questi ultimi non costituì la manifestazione organizzata, come invece una parte della storiografia ritiene di potere ancora sostenere, ma senz’altro ne raccolse il disagio e lo trasformò in propellente antidemocratico.

FONDAMENTALE, semmai, è ragionare sulla saldatura tra la ridondante immagine della violenza bellica – traslata nella riduzione della politica ad atto di mera sopraffazione – e la mistificazione che per vent’anni venne diffusa a piene mani dal regime, laddove il binomio tra «rigenerazione» e «rivoluzione nazionale» divenne canovaccio di una recitazione collettiva basata sull’auto-inganno. A ciò va aggiunto il fatto che nella sua mitografia celebrativa il fascismo riuscì nello sforzo di volgere a proprio favore una parte del repertorio semantico e culturale del radicalismo italiano, volgendolo contro le stesse avanguardie radicali, neutralizzate sul piano dello stravolgimento di senso che veniva operato del loro lessico di mobilitazione. La marcia su Roma si incastra dentro queste dinamiche, avviatesi già durante la prima guerra mondiale e per nulla risoltesi con gli ultimativi seicento giorni della triste e cupa Repubblica di Salò. È come uno spartito aperto, dal quale anche oggi altri esecutori possono trarre vecchie note per nuove melodie, quelle suonate dai pifferai di turno.