Il 1992 è stato, per la Spagna, un anno memorabile che ha segnato il punto culminante della decade socialista, tra avvenimenti internazionali (le Olimpiadi di Barcellona e l’Expo di Siviglia, Madrid capitale europea della cultura) e i grandiosi investimenti destinati a sottolineare i cambiamenti sociali ed economici post-transizione. E poi, mentre il paese smaltiva una sorta di doposbornia da grandi eventi, il 1993 l’aveva travolto con la cronaca quasi ossessiva di un delitto destinato a lasciare un segno profondo nell’immaginario, ovvero lo stupro e l’uccisione di tre adolescenti, las niñas de Alcácer: una notizia coperta con spietato sensazionalismo dai giornali e dalle prime televisioni private.

UNO SFONDO che andrà tenuto presente da chi affronta la lettura di Vocedivecchia (Blackie Edizioni, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 257, euro 19,90) di Elisa Victoria, nata nel 1985 a Siviglia, dov’è ambientato questo suo primo romanzo le cui vicende, pur non connotate di una data precisa, esibiscono riferimenti temporali inequivocabili. Dagli schermi televisivi si affacciano, infatti, l’ancora trionfante Felipe González, il già insidioso Aznar e i volti riprodotti all’infinito delle povere ragazze di Alcácer, insieme agli episodi di Baywatch o di Sailor Moon e a tutto un inconfondibile contorno di musica, film, divi, marche, prodotti, consumi, giocattoli oggi quasi dimenticati, come le bambole Chabel, controcanto spagnolo alle Barbie americane. Fuori, intanto, un calore soffocante svuota le strade, sottolineato dalla peggiore siccità del secolo: non ci sono dubbi, siamo nel pieno dell’estate sivigliana del 1993 che si è appena lasciata alle spalle l’euforia dell’Expo.

A raccontare è una bambina di nove anni che vive in un quartiere operaio di periferia e che, anche se porta orgogliosamente lo stesso nome di sua madre e di sua nonna, cioè Marina, viene soprannominata Vocedivecchia dai compagni di scuola, un po’ per la sua intonazione grave, un po’ per i suoi abiti fuori moda, cuciti in casa. Una ragazzina che non ricorda più la faccia di un padre assente da molto tempo, e che sta affrontando i mesi estivi nel modesto appartamento di una nonna scivolata con gioia in una vecchiaia un po’ anarchica e senza tabù, pronta a parlare con la nipote delle funzioni corporali, dei due mariti defunti o della passione per «Felipito» González, tra sigarette e parolacce.

Se Marina viene avvolta, giorno dopo giorno, dalla rude dolcezza nonnesca e da un perenne odore di fritto, è per via della grave e misteriosa malattia della madre che, ricoverata in ospedale, comunica con la figlia solo per telefono: lunghe conversazioni fatte di niente, in cui lo spettro della morte possibile, probabile, temuta, si affaccia di continuo.

Una storia semplice, quella delle tre Marine e del loro matriarcato proletario, ateo e anticonformista, raccontata in prima persona da una voce che semplice non è, perché l’autrice ha scelto di travasare i pensieri e i sentimenti dell’infanzia in un linguaggio elaborato e maturo, un flusso di coscienza magistralmente costruito da Victoria, che regala a Marina lo strumento necessario a esprimere compiutamente osservazioni acute, esilaranti e profonde, giudizi caustici, riflessioni sulla violenza e il sesso (temi filtrati attraverso fumetti, film, desideri e sperimentazioni «proibite»), sui mutamenti del corpo, sul costante timore di essere fuori posto ovunque.

A QUESTA VOCE che prescinde da qualsiasi verosimiglianza e in un certo senso «traduce» i pensieri e i sentimenti infantili, si accompagnano dialoghi che, invece, riproducono in modo quasi mimetico il modo di parlare di una bambina di nove anni e dei suoi coetanei, come se l’autrice volesse ricordarci quanto c’era di segreto e insondabile nei bambini che siamo stati, e come l’infanzia si adatti a dare di sé stessa l’immagine che gli adulti sembrano desiderare o esigere.

IL DISCORSO INTERIORE di Marina, così denso di domande, intessuto di punti di vista spiazzanti, legato a sensazioni fisiche vivide e intense, a tratti crudo ed esplicito, ci fa presente quanto poco sappiamo dell’infanzia, con le sue asprezze, le sue feste, i suoi stupori, le sue crudeltà. E davvero si può dire che Elisa Victoria riesca a demolire ogni compiacente stereotipo e abbia vinto, con questo romanzo d’esordio, una scommessa spesso perduta da chi mette al centro del proprio narrare un protagonista bambino, mentre, sospeso tra inquietudine, timore e desiderio, cerca di immaginare un futuro sconosciuto.