Messico, Mondiali di calcio 1970. Il generale-presidente brasiliano Emilio Medici si presenta allo Stadio Azteca in persona per alzare al cielo la Coppa vinta dal Brasile… Sembrava che il Paese si fosse lasciato alle spalle il tempo in cui le grida dei tifosi nascondevano le urla dei torturati negli scantinati del regime militare, ma giorni fa, durante l’apertura delle Olimpiadi nello stadio Maracanã, il presidente ad interim Michel Temer provoca in molti brasiliani il ritorno di un vecchio brivido nella schiena. Lo fischiano, ma non possono fare altro. Anche perché, ad ogni manifesto «Fora Temer» portato allo stadio da casa, sbucano due, tre, quattro, cinque agenti di polizia che hanno l’incarico di buttarli fuori.

La coreografia della festa è la solita minestra. Le favelas ricoperte di Eternit presentate come un prodotto made in Brazil senza contraddizioni fanno quasi pensare che, se un giorno sparissero per dare luogo ad abitazioni degne, del Brasile non se ne parlerebbe mai più. Non si è capito bene il tema ecologico sventolato nonostante il disboscamento voluto e sponsorizzato da una speculazione edilizia sempre più criminale. Tra l’altro, se gli stranieri volessero capire da dove nascono gran parte delle malattie dai nomi strani di cui sentono parlare, ci sarebbe da domandare ai costruttori dove siano finite le foreste, i fiumi e i laghi brasiliani.

In Brasile c’è stato un golpe, non c’è alcun dubbio. Da quando il Congresso brasiliano ha allontanato la presidente Rousseff, la parte critica del paese viene costretta al silenzio. Una mia collega insegnante voleva iscriversi a un corso di arabo per approfondire i suoi studi sull’Africa. Da quando però la polizia federale ha cominciato, con la scusa della sicurezza alle Olimpiadi, a dare caccia ai «terroristi» (studenti o insegnanti di Arabo inclusi), lei ha preferito lasciar perdere.

A proposito, a scuola gli insegnanti stanno bene attenti a quel che dicono, specie dopo l’introduzione del progetto di legge della destra che istituisce la «scuola senza partito», che limita la libertà di cattedra degli insegnanti. Vuol dire niente più politica nelle scuole, solo la necessaria educazione morale e civica, come ai tempi della dittatura militare. D’altronde, che sta facendo il dilettante di Tayyip Erdogan, con la sua politica di spurgo? Che cos’è questa sciocchezza dello Stato Islamico, i burka e persino Boko Haram dinanzi al nostro fondamentalismo evangelico fai-da-te, con i suoi rappresentanti anti-gay, anti-donne e anti-poveri passati al potere nel Congresso?

La pena di morte ce l’abbiamo già. Quella selettiva, però, che condanna a morte nella maggioranza dei casi la popolazione nera. In Brasile non c’è la tivù – né la stampa – di Stato, ma c’è l’egemonia della Rede Globo e del settimanale Veja. «Non sapevo quanto fosse debole la nostra democrazia – mi dice un giornalista nato dopo la fine della dittatura militare -. Forse abbiamo fatto troppo poco per difenderla. Ci vorrano anni per ritrovare la strada giusta».

Un giovane addetto stampa mi dice che a lui non importa niente che il Brasile si presenti bello agli occhi degli osservatori stranieri. «È tutta un’esaltazione del patriottismo. Volevo solo che fischiassero Temer allo stadio… No, non li seguirò i giochi».

Vado in giro a cercare della gente che mi spieghi quello che non ho ancora capito. Che siamo tornati indietro davvero? «Ho paura che mi trovino un barattolo di disinfettante nello zaino e che mi arrestino», si sfoga una compagna del sindacato degli insegnanti. «Quel ragazzo preso con la bottiglietta di disinfettanti, te lo ricordi? È in galera già da due anni. Non riesco nemmeno a formulare alcuna analisi congiunturale canonica. Vorrei soltanto guardare in faccia quelli che oggi appoggiano il golpe, quando con la crisi non ci saranno più né lavoro, né diritti». Un’altra prof. mi ripete quasi lo stesso stato d’animo. «Sono depressa. Ho smesso di vedere gli amici. Ogni volta che ne vedo uno di destra, l’unica cosa che penso tra me e me è “Magari perdesse il lavoro, magari perdesse il lavoro…”».

Cosetta, invece, ha rotto con me da mesi: «A te piace Chico Buarque. Ma lo sai che ha un’appartamento a Parigi, mente io mi ammazzo di lavoro e vivo nella merda? Lo trovi giusto? E tu? Le cavolate di sinistra che scrivi, è solo grazie al fatto che sei libera e c’è chi ti permette di farlo». Infatti, scrivo in Italiano. Così non mi capiscono. In Brasile, faccio revisioni di bozze e scrivo, sì, ma chiusa in casa, intimorita e depressa, guardando i Giochi olimpici alla tv.