Era una domenica mattina tranquilla a Brasilia, le famiglie passeggiavano nel parco attorno al lago e pranzavano nel mercato, ai piedi della torre della Tv. Intanto le auto con le bandiere verde-oro e le carovane di bolsonaristi, riunite intorno al comando dell’esercito, marciavano verso la Piazza dei Tre Poteri.

Attraversavano indisturbati i sette chilometri dell’Esplanada dei Ministeri, mentre ai lati la polizia del Distretto Federale (Df) sorseggiava acqua di cocco. Nella Esplanada alcuni manifestanti installavano delle tende di lamiera, altri superavano agevolmente il blocco della polizia del Df e entravano nel palazzo del Congresso. Lì inizia la devastazione.

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Nel salone d’ingresso c’è odore di gas lacrimogeno e si cammina sui vetri frantumati. Al piano terra, un gruppo di persone alza le mani al cielo e intona una preghiera, un altro gruppo con caschi e scudi sale al primo piano, diretto alla sede del Partito dei Lavoratori (Pt), che viene distrutta. Altri manifestanti occupano il tetto del Congresso da cui si ha una vista a 360° gradi sulle scene di guerriglia urbana nella piazza.

Non sembra vi siano leader, ogni tanto dei piccoli gruppi prendono l’iniziativa: viene srotolato uno striscione che chiede «intervento militare». Altri si muovono spaesati, qualcuno grida consegne al telefono.

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Poi, i manifestanti si dividono in due gruppi: uno è diretto alla sede del Supremo Tribunale Federale (Stf), l’altro a Planalto, proprio dove una settimana fa Lula aveva indossato la fascia presidenziale. È qui che riescono a entrare senza quasi incontrare resistenza, un gruppo si dirige deciso in una sala del servizio di sicurezza istituzionale, dove trafuga delle armi.

Come fanno a sapere esattamente dove andare?

Mentre va avanti la devastazione, molti manifestanti occupano il piazzale antistante il Congresso. Una donna di cinquant’anni indossa occhialini da piscina per proteggersi dai gas, in entrambe le mani ha delle pietre. Qualcuno si è portato delle sedie pieghevoli, ci sono famiglie con bambini che comprano gelati dai venditori ambulanti. Ogni tanto qualcuno grida ordini «andiamo, salite sulla rampa».

MA SEMBRA CHE IL CAOS sia l’unica consegna. Il furore si placa dopo circa tre ore dall’inizio dell’assalto, quando il governo federale dichiara lo stato d’emergenza e obbliga i manifestanti alla ritirata. «Codardi, traditori», gridano alle forze dell’ordine i bolsonaristi arretrando.

Il presidente Lula raggiunge la capitale nella notte e si dirige verso i palazzi devastati, mentre il Stf richiede la consegna dei filmati delle telecamere dei negozi e il Congresso annuncia l’avvio di una commissione d’inchiesta. È la prima risposta coordinata dei tre poteri dello Stato.

Fa strano pensare che fino a poche prima, mentre le famiglie di Brasilia passeggiavano sul lungolago, il dibattito pubblico fosse concentrato sulle politiche economiche e la deforestazione zero dell’Amazzonia. In mezza giornata, cambia l’agenda e il paese ripiomba nell’incubo del terrorismo politico.

L’ex presidente Bolsonaro twitta dalla Florida, prende le distanze dall’assalto con mezze parole. I suoi deputati in Brasile seguono la stessa linea, criticano la violenza ma accusano la sinistra di doppia morale.

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Intanto, nella notte tra domenica e lunedì vengono bloccati altri bus di bolsonaristi diretti a Brasilia e vengono sgomberati gli ultimi accampamenti di fronte alle caserme.

Lunedì mattina Brasilia si risveglia ferita e incredula. Ci sono blindati a difesa dei palazzi di governo. La stampa internazionale, quasi assente durante l’assedio, raggiunge Brasilia.

Tra i cronisti arrivati a Planalto, si riconoscono gli stessi volti incontrati appena una settimana fa, ai piedi della rampa dove Lula assumeva il ruolo di 39° presidente del paese. Il luogo è lo stesso, ma il clima è cambiato. Ci sono volti perplessi e tesi. Gli operai raccolgono i vetri frantumati dagli assaltanti nel salone con le foto dei presidenti.

Le immagini sono state tutte stracciate. Tutte tranne una, quella di Bolsonaro è stata portata via integra. Nella sala riservata alla stampa, la porta è divelta, «era macchiata di sangue, sul pavimento macchie di urina, hanno rotto i ripetitori internet», racconta una funzionaria governativa.

«I danni veri sono al piano di sopra – racconta Danna, addetta alle pulizie – Hanno spaccato le lastre in marmo dei bagni, distrutto i dipinti e saccheggiato gli uffici». Nel pomeriggio parla il ministro della giustizia: «Nelle forze armate ci sono persone che hanno agito guidate dall’ideologia politica, non dal senso dello Stato. Abbiamo i nomi di chi ha finanziato gli accampamenti, ha comprato i viveri e pagato gli hotel. I colpevoli non resteranno impuniti».

MENTRE PARLA, gli arresti sono arrivati a 1.200 e lievitano le evidenze di cooperazione delle forze armate con alcuni manifestanti. «Sono dalla vostra parte, mia madre sta manifestando con voi», assicurava un militare ai manifestanti davanti al Congresso, senza accorgersi di essere ripreso.

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Quanto può fidarsi il paese delle proprie forze armate? Questo è il rompicapo che deve risolvere non Lula, ma la quarta democrazia del mondo, trasformato nel laboratorio degli esperimenti politici dell’estrema destra. E delle forze armate, fattesi partito di governo negli ultimi quattro anni.

Intanto, cadono già le prime teste tra gli uomini in divisa e circolano accuse tra chi promette fedeltà al nuovo governo e chi teme di essere accusato di connivenza con i terroristi. Lula convoca i governatori di tutti gli Stati, nel tentativo di spegnere i fuochi di protesta bolsonarista che si stanno accendendo in giro per il paese.Il giorno dopo l’assalto, la democrazia brasiliana cerca di rialzarsi, scrollandosi di dosso la polvere dopo la caduta rovinosa di ieri. Manifestazioni a difesa della democrazia sono convocate in tutto il paese. In molti si chiedono se questa è la nuova normalità.

Se, dopo Capitol Hill a Washington, l’assalto alla sede della Cgil a Roma, le bombe di Natale in Brasile, le democrazie sono condannate a convivere con le minacce di terrorismo di estrema destra.