Del gruppo della neo-avanguardia, Nanni Balestrini fu il più estremo, sia dal punto di vista artistico che politico, perseguendo una poesia totale, visiva anche quando ritagliava brani altrui per il suo Tristano, o registrava e montava i racconti dell’operaio salernitano Alfonso per il suo romanzo più famoso Vogliamo tutto (1971).

Una strana avanguardia quella del Gruppo ’63, con Alfredo Giuliani che criticava Roland Barthes e non nominava il papa delle avanguardie europee, Guillaume Apollinaire.

Ho frequentato Balestrini, dal 1973 al 1979, quando fu accusato di banda armata insieme a Toni Negri.

Ci conoscemmo per via di Vogliamo tutto e di Cani sciolti, che venivano accoppiati per descrivere le lotte operaie e quelle studentesche della stagione del post-Sessantotto. Abitava allora in via dei Banchi Vecchi, in una casa dove vidi la prima pagoda appesa nel corridoio.

Ci viveva con Letizia Paolozzi. In quel salotto disadorno incontrai Negri, Bifo, Guerrazzi e un vecchio partigiano.

Sapendomi collaboratore di Nuovi Argomenti, Nanni mi disse che Moravia andava considerato come il nonno di tutti noi. Mi incoraggiò a scrivere un romanzo fatto di lettere di miei parenti emigrati in mezzo mondo. Ero contrario a mettere l’io in sordina, come facevano i suoi sodali. Tuttavia quando fondò la Cooperativa Scrittori mi pubblicò La casa in comune e mi fece collaborare a Quindici.

La neoavanguardia con il Sessantotto si divise tra Balestrini e Giuliani. Lo ricordo in una manifestazione romana, un lungo corteo che arrivato a piazza Venezia vide i brigatisti sparare per aria davanti alla sede della Dc. Era appoggiato sul cofano di una macchina e a me che piangevo per aver visto la fine della sognata democrazia di base, mi suggerì di bere e forte.

Puntava all’Autonomia operaia mentre io facevo parte del gruppo del Manifesto, di cui ero diventato il critico letterario. Quando sciando riparò nella Francia di Mitterand perdemmo le nostre tracce.

Ricordo che Letizia Paolozzi mi disse che Nanni rivoleva indietro un Majakovskij in russo, che gli sembrava di avermi prestato. A me sembrò un fatto altamente simbolico. C’eravamo persi il cantore della rivoluzione sovietica.

Quando tornò, assolto, in Italia, nel 1984 ci perdemmo di vista. Nella mia biblioteca ci sono quasi tutte le sue opere. La signorina Richmond è il poemetto che mi piacque di più. Era stato sceneggiatore e aveva collaborato anche a Profondo rosso. «Ti ho spaventato!», mi disse quando gli raccontai della fibrillazione di quel film cult. Invece non sopportai L’Oriente è rosso che mi parve retorico e che invece a lui piacque molto.

Cucinando un piatto di pasta, osservando meticolosamente le istruzioni di un libro, mi disse che a ben vedere scrivere versi era un’attività simile. Si trattava di frullare le parole lette altrove, ma senza l’inconscio individuale, che i surrealisti usavano per le loro parole in libertà di origine futurista.

Il mondo delle parole scritte o registrate andavano usate come fa la linguistica, non per fini scientifici, bensì – per così dire – ideologici. «Eravamo tutti comunisti», recita il sottotitolo di una sua opera, Carbonia.

Anche per me il bisogno di comunismo, come dissi in una trasmissione televisiva con Pier Paolo Pasolini, era tutto quello che rimaneva del Sessantotto, ma il mio comunismo era fatto di persone, di gente che volevo raccontare mescolando il mio io al noi. Balestrini invece non scrisse mai nulla della sua vita, la riteneva inessenziale. Era un uomo silenzioso, più proteso verso l’agire.

Ciao, Nanni.