Ambientazione a Belfast, nel 1969, proprio nel bel mezzo dei Troubles, quando la tensione tra cattolici e protestanti esplode in tutta la sua violenza, dando il via a un conflitto che per quasi trent’anni ha insanguinato l’Irlanda del Nord. Ma Kenneth Branagh non è per nulla interessato a offrire una lettura della Storia, tanto meno a un’analisi approfondita delle condizioni sociali e delle discriminazioni che all’epoca furono all’origine degli scontri, punta semmai a un’idea di messa in scena «sovrana» (e ruffiana), dove si strizza l’occhio ora a Welles, ora a Tornatore, con il chiaro intento di conquistare un pubblico il più vasto possibile e magari accaparrarsi pure qualcosa agli Oscar a colpi di astute carinerie. Il racconto della sua Belfast è una questione privata, un amarcord personalissimo e sentimentale filtrato attraverso gli occhi della nostalgia. La città è quasi un set di cartone, come i villaggi dei western che si vedono al cinema o alla televisione, con la vita che brulica attorno a un’unica via, la via di casa in un quartiere misto, luogo simbolo dell’infanzia, regno dell’innocenza e dell’illusione, ma anche una sorta di palcoscenico teatrale, dove il regista britannico, allievo di sir Laurence Olivier, si muove evidentemente a suo agio (e con un cast di tutto rispetto).

INEVITABILE che in un quadro così idealizzato, persino i disordini e le violenze di quei giorni finiscano per essere ingoiati in una zuccherosa melassa, derubricati a episodi aneddotici che saltuariamente interrompono la routine familiare del piccolo Buddy, tra Amelie e Totò Cascio, tutto sorrisi, lentiggini e stupore, attraverso il cui sguardo il regista rivisita i primi anni della sua esistenza: i vicini di casa, la mamma, il fratello maggiore, i compagni di scuola e gli adorati nonni, l’atteso rientro del padre che fa il pendolare a Londra, dove lavora come carpentiere accarezzando l’idea di un trasferimento con la prospettiva di una maggiore stabilità economica per la famiglia. La Belfast di Branagh rappresenta un luogo mitologico e irreale, il regno della finzione assoluta. Un rifugio dell’anima, ricordo che si fa cinema e nel quale il regista, in questo senso coerente, non rinuncia a imprimere un’impronta visiva ben definita e persino enfatizzata dall’uso del grandangolo, l’abbondanza di primi e primissimi piani, il bianco e nero digitale (con il colore usato solo come vezzo al cinema, al teatro o laddove c’è «verità»). Non si può accusare il film di non essere qualcosa a cui neppure ambisce, ma per lo meno di mancare di sostanza, restando implacabilmente incastonato in superficie, facendo leva sui buoni sentimenti e sulla nostalgia per un passato astratto, cadendo involontariamente nella trappola dell’inevitabile eccesso di stile.