Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi, i 1200 morti israeliani del 7 ottobre, i 35 mila palestinesi, di cui il 70 per cento donne e bambini, ostaggi ebrei compresi di cui nessuno sa davvero quanti siano ancora vivi. È una domanda che si fanno tutti, anche i più indifferenti perché si intuisce che da qui, come dal fronte dell’Ucraina, verrà fuori il nostro futuro e il modo in cui saremo percepiti come una civiltà occidentale credibile al Sud del mondo.

La situazione in queste ore appare in uno stallo angosciante e sempre più catastrofico per i palestinesi.

Dal punto di vista umanitario e della pura sopravvivenza. Si continua a morire, con e senza bombe: per eliminare i palestinesi e ridurli a fantasmi in mezzo alle macerie di Gaza bastano la fame e le malattie, oltre all’acciaio delle pallottole. È un degrado materiale e morale che punta direttamente alla loro capacità di resistenza, all’idea stessa che possano esistere come popolo e come nazione. Per questo lo chiamano genocidio.

Non è una definizione tecnica o giuridica – quella è sotto esame delle istituzioni internazionali – è la realtà dei fatti, è un giudizio politico che scuote, o dovrebbe scuotere, le coscienze. Si negozia e si combatte in attesa di un’offensiva militare israeliana o di un cessate il fuoco, come se questa nuova strage strisciante, condotta in sospensione, fosse lo stato naturale delle cose. Ma la sensazione è che a nessuno dei protagonisti sul campo, da Netanyahu a Hamas, importi più di tanto delle vittime. Loro si stanno giocando una partita diversa, quella della sopravvivenza politica. Per primo Bibi Netanyahu che, come ripetiamo da mesi, vede nella guerra l’unica via per restare al potere.

Ma è esattamente così? Lo è in gran parte, eppure forse la situazione è più complicata, la scelta meno secca di quel che sembra: o la guerra o l’uscita di scena. In realtà Netanyahu – preso tra due fuochi, la destra estremista e le pressioni di Biden, come scriveva ieri Michele Giorgio – punta a gestire la guerra ma anche un eventuale cessate il fuoco che visti i precedenti degli ultimi decenni non è mai definitivo.

Lo stato di guerra nei territori palestinesi del resto è perpetuo: ogni giorno, da mezzo secolo, i governi israeliani conducono azioni belliche, si impadroniscono della terra degli arabi, erigono muri, vietano strade, eliminano i diritti più elementari, soffocano la libertà di movimento e di pensiero: questo è uno stato colonialista che ha attuato una condizione insostenibile di apartheid. Il fine ultimo è cacciare i palestinesi, non fare la pace con loro e vivere in due stati. Per questo quello in corso è un negoziato macabro e precario rispetto ai fini di questo governo e di cosa è diventato il sionismo in mano ai partiti più radicali ed estremisti.

In realtà il premier israeliano è da vent’anni al potere, una sorta di raìs arabo, in questo caso ebraico, confermato da raffiche di elezioni, che manovra le leve del potere con la corruzione e manipola da decenni l’opinione pubblica interna e internazionale, antisemitismo compreso come bene ha sottolineato il senatore americano Bernie Sanders, democratico ed ebreo. Ha un obiettivo a breve termine e non così tanto lontano: superare le elezioni americane di novembre dove se vincesse Trump per lui le cose si metterebbero certamente meglio che con l’attuale amministrazione americana che ha trattato come una sorta di zerbino.

Trump è quello che ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato ebraico contro ogni risoluzione Onu, la sovranità israeliana sul Golan siriano occupato dal 1967, è il mediatore degli Accordi di Abramo con le monarchie arabe dove seppellire un eventuale Stato palestinese. Biden ha ereditato questo “pacchetto” accettando una visione del mondo così miope e fallimentare che pochi giorni prima del 7 ottobre il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan dichiarava che «la regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni».

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Ed è così che Biden e i suoi sono caduti nella trappola di Gaza, facendosi continuamente ricattare, con un’amministrazione in piena campagna elettorale e in calo di consensi al punto da elargire a Israele miliardi di dollari in aiuti militari, per arrivare poi all’attuale blocco sulle consegne di bombe a Tel Aviv che appare soltanto un tentativo goffo di salvare la faccia.

Dall’altra parte c’è Hamas che ovviamente non scomparirà con l’incenerimento di Gaza. Il movimento islamico è stato abile a rilanciare la palla del negoziato in campo israeliano anche se adesso gli Usa hanno chiesto al Qatar, dove tengono una base militare, di eliminare la sua presenza. Ma farlo vorrebbe dire inimicarsi i Fratelli Musulmani che il Qatar ha sempre protetto. Significa entrare in attrito con l’Iran e i suoi alleati che puntano ancora su Hamas che pure ai tempi della guerra civile siriana si era schierato contro Assad.

Il cosiddetto “asse della resistenza”, come lo chiamano Teheran e le milizie sciite Hezbollah, è temuto da Israele ma ancora di più dagli Stati arabi, inerti davanti al massacro di Gaza. Come l’Europa neppure loro hanno messo l’ombra di una sanzione a Israele. E anche loro devono garantirsi la sopravvivenza. Allora come finirà? Non finirà, neppure questa volta, con questo negoziato macabro e precario.