A Washington, il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, testimonia al Senato e prova a contenere i danni politici del fallimento afghano. A Kabul, il ministro degli Esteri a interim del nuovo governo dei Talebani, il mawlawi Amir Khan Muttaqi invoca aiuti e riconoscimento da parte della comunità internazionale. A condizione che gli stranieri non pretendano di dettare le regole in Afghanistan.

A UN MESE DALL’ARRIVO dei Talebani a Kabul, città caduta nelle loro mani senza spargimento di sangue e dopo un’offensiva militare che in soli 11 giorni ha portato al crollo della Repubblica islamica, i turbanti neri affrontano la sfida e il paradosso del loro governo: pretendono sovranità, ma dipendono dagli altri.
Muttaqi, che è stato a lungo a capo della Commissione cultura dei Talebani e che al tempo del primo Emirato ha spesso guidato le delegazioni degli studenti coranici all’estero, ha tenuto la sua prima conferenza stampa. Ringraziando la generosità della comunità internazionale, che ieri a Ginevra ha risposto all’appello-lampo del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, promettendo più di 1 miliardo di dollari in aiuto. Servono a tamponare una situazione umanitaria drammatica. Solo per qualche mese. E, assicura Muttaqi, verranno impiegati e distribuiti in modo trasparente, per il bene della popolazione, attraverso la Banca centrale afghana, alla cui testa è stato nominato giorni fa Mohammad Idris.

Privo di esperienza nel settore, si trova a dover gestire una crisi finanziaria da far tremare i polsi. Per questo Muttaqi è tornato a invocare buone relazioni con la comunità internazionale. Provando a mescolare le carte. Ha cercato infatti di far passare il messaggio che il bene della popolazione dipenda anche dal riconoscimento del governo dei Talebani e, cosa su cui ha insistito molto, sulla rimozione dei leader dalle liste “nere” delle Nazioni unite. Il fatto che non lo si sia ancora fatto, sostiene Muttaqi, è una violazione dell’accordo di Doha.

L’ACCORDO BILATERALE tra Stati uniti e Talebani firmato nella capitale del Qatar il 29 febbraio 2020 prevedeva la rimozione dei nomi del gruppo da quelle liste, ma come contropartita rispetto alla riduzione della violenza e a un vero negoziato di pace con i politici afghani. I Talebani al contrario hanno aumentato la violenza e hanno sabotato il negoziato intra-afghano, preferendogli la spallata militare che li ha portati sì al potere, ma con molti problemi da risolvere.

I problemi di tenuta interna sono stati solo provvisoriamente risolti con un governo tutto targato talebani. Premiate quasi tutte le componenti del movimento, tranne quelle con i rapporti più burrascosi con il Pakistan, per ora vincitore della partita regionale. I rumors dei giorni scorsi che davano per morto mullah Abdul Ghani Baradar, il negoziatore di Doha finito a racimolare un posto da vice primo ministro, sotto il vecchio mullah Hassan Akhund e accanto all’altro vice, l’uzbebo mullah Abdul Salam Hanafi, già vice ministro dell’Istruzione al tempo del primo Emirato, dimostrano che le cose non filano lisce come si vorrebbe. Baradar avrebbe infatti contestato il suo ridimensionamento e l’eccessivo peso concesso invece all’area degli Haqqani, che incassa tra gli altri il pesante ministero degli Interni affidato a Sirajuddin Haqqani.

La priorità per i Talebani in questo primo mese da padroni a Kabul è stata quella di cementare il fronte interno. Senza riuscire a evitare le delusioni di molti e anche di quei partner regionali – come Iran e Russia – che avevano deciso di non ostacolare la loro presa del potere, con la promessa di un passaggio di poteri graduale, e un governo davvero inclusivo.

I TALEBANI HANNO FATTO di testa loro. Ma ora devono ricucire molti rapporti. Mentre quelli con la società si fanno tesi. Il messaggio inviato con la repressione violenta delle manifestazioni degli scorsi giorni è chiarissimo: nessuno spazio per dissidenti, contestatori. Ma dal monopolio della violenza non discende mai il monopolio del consenso e della legittimità. E il fatto di aver deciso – almeno in questa prima fase della transizione da gruppo armato a forza politica – di tenere il potere tutto con sé comporta anche l’assunzione di tutte le responsabilità. Anche quelle di mandare avanti un’economia dipendente dagli altri.

Servizi essenziali come istruzione e sanità in questi 20 anni di occupazione militare sono dipesi dalle donazioni degli stranieri, in particolare dell’Occidente, che ha subito chiuso i rubinetti, su indicazione di Washington. Salvo poi accorgersi, con l’appello di Guterres, che siamo di fronte «all’ora più drammatica» per l’Afghanistan, che rischia un collasso totale. La posizione maggioritaria per ora è «dialogo ma senza riconoscimento». Il primo ministro degli Esteri a visitare Kabul è stato però quello del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, arrivato domenica nella capitale. Per i Talebani quella visita equivale a un riconoscimento del loro governo. Per il Qatar no. E anche la gestione dell’aeroporto di Kabul, in funzione per i voli umanitari solo grazie all’assistenza tecnica del Qatar, potrebbe venir meno, senza un accordo formale.

IL FATTO POI CHE L’EMIRATO non sia stato annunciato formalmente, che la cerimonia di insediamento non si sia ancora tenuta provano le difficoltà dei Talebani a ottenere quel riconoscimento a cui ambiscono. Per ora incassano solo le visite degli inviati di Pechino e Islamabad. Troppo poco per risolvere il gran paradosso dell’Emirato: rivendicare sovranità, ma dipendere economicamente dall’esterno.