Una California già sull’orlo della sostenibilità, con i suoi 40 milioni di abitanti concentrati prevalentemente in zone semiaride, dipendenti da un complesso sistema di acquesdotti (come anche l’agricoltura intensiva, pilastro fondamentale dell’economia), somiglia sempre di più, in quest’estate rovente, alla distopia mai lontana dall’immaginario collettivo e hollywoodiano.

Su San Francisco e la Bay Area grava da giorni una cappa cremisi che sembra fotografata da Roger Deakins per Blade Runner.

Nel vicino Oregon la situazione è ancora più inquietante: un crepuscolo sanguigno e permanente oscura da giorni il cielo – una notte permanente di fumo e ceneri sopra a Salem, Eugene, Medford e altre località. Ora si teme per la periferia di Portland.

L’Ovest americano è nuovamente nella morsa delle fiamme – la «fire season», la stagione degli incendi, è ciclica e stagionale come nel clima mediterraneo ma c’è ora, dopo quattro anni di incendi record per danni ed estensione, il senso netto di una tendenza più grande verso una situazione sempre più drammatica per gli stati che si affacciano sul Pacifico e quelli a ridosso: Arizona, Nevada, Utah, Colorado.

In California quest’anno sono già andati distrutti 10.000 Km2, 2.000 nello stato di Washington e altrettanti in Oregon (è un’area grande come metà del Belgio, ndr).

Più di quanto è bruciato nel 2017 quando andarono in fiamme 2.000 case e 22 persone morirono a Santa Rosa e Sonoma.

Più del 2018 quando è stata rasa al suolo la cittadina di Paradise con 85 morti. E si è solo agli inizi di una stagione che può durare fino a dicembre e oltre, quando si levano i venti Diablo (nord) e San Ana (sud) capaci di soffiare letteralmente sul fuoco.

 

 

Quest’anno gli incendi in California sono esplosi soprattutto dopo due giorni di anomale tempeste elettriche nel centro dello stato durante le quali sono caduti oltre mille fulmini in 24 ore. Senza una goccia di pioggia.

In prima linea negli stati del West sono attualmente impegnati oltre 20.000 pompieri, comprese unità provenienti da Australia e Canada, su 25 focolai principali.

Sono state distrutte migliaia di abitazioni e si registrano le prime vittime, come le 7 salme rinvenute ieri fra le macerie carbonizzate in Oregon, ma la situazione permane fluida e c’è la consapevolezza che il bollettino potrebbe peggiorare ancora di molto: «Potremmo vedere la peggiore perdita di vita provocata da incendi boschivi nella storia del nostro stato», ha detto martedì la governatrice dell’Oregon, Kate Brown.

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A Los Angeles vivono col fiato sospeso gli abitanti di alcuni quartieri settentrionali, Pasadena, Arcadia, Monrovia, dove 20.000 persone sono state preallertate per una possibile evacuazione nel caso un’inversione della rotta dei venti dovesse sospingere verso quelle zone le fiamme che bruciano da giorni nelle foreste di conifere sulle alture San Gabriel a nord della città.

Fanno parte delle centinaia di migliaia di persone che hanno ricevuto ordini di evacuazione nelle ultime due settimane a seconda dello sviluppo degli incendi.

Si sono registrate operazioni di salvataggio drammatiche come il ponte aereo di elicotteri che la scorsa settimana ha trasportato 200 campeggiatori intrappolati dalle fiamme nella Sierra Nevada, non lontano dal parco nazionale di Yosemite.

Il governatore ha successivamente chiuso tutte le aree di ricreazione (le «national forest») che solo da poco erano state riaperte dopo le serrate per il Covid.

La pandemia, infatti, complica non poco le operazioni dei vigili del fuoco ma soprattutto la gestione degli sfollati. Normalmente sistemati in centri di accoglienza allestiti in arene sportive, scuole e palestre requisite, oggi sono costretti dalle norme di distanziamento a venire dirottati in stanze di albergo spesso non prontamente disponibili, da cui lunghe attese nei centri di smistamento della protezione civile.

In questa estate di «I can’t breathe» e Covid, gli incendi hanno contribuito a rendere l’aria davvero irrespirabile. In ogni senso: la polizia tenta di smentire voci che si propagano su Facebook ancora più veloci delle fiamme sulla presunta origine dolosa degli incendi, appiccati – a seconda dei fake – da Antifa o dai fascisti di Proud Boys.

E nell’angoscia esasperata dalla retorica elettorale, specialmente quella del presidente, le immagini degli incendi boschivi si fondono a quelle dei negozi bruciati nelle città trasmessi dalle emittenti di destra per seminare il panico e compattare la base trumpista.

 

 

Ogni fenomeno naturale intanto sembra ingigantito e i numeri (di vittime e di estensione) sono in crescita drammatica negli ultimi anni: sembrano inequivocabilmente gli effetti di un clima più instabile e imprevedibile.

O forse fin troppo prevedibile, stando agli avvertimenti ormai costanti degli scienziati che trovano sempre più ampi riscontri empirici alle loro previsioni.

In Colorado – anche questo uno stato interessato da incendi – questa settimana un’escursione termica record ha fatto passare il meteo dall’afa di 30 gradi a una (provvidenziale) nevicata settembrina. Sbalzi ed estremi che incidono su fenomeni come gli incendi.

Le previsioni di esperti come Park Williams del Earth Observatory della Columbia university parlano di un quadrante occidentale del paese destinato a diventare progressivamente più caldo e più arido.

L’incremento attuale degli incendi è effetto di un mutamento climatico «che è solo nelle fasi iniziali», ha dichiarato Williams al New York Times, sintetizzando l’opinione della comunità scientifica.

In quest’ottica, gli sfollati e ancor più le persone obbligate a lasciare per sempre le loro abitazioni per l’impossibilità di acquistare polizze di assicurazione sono da considerarsi a tutti gli effetti «profughi climatici». Gli effetti del mutamento climatico, ricordano gli studiosi, non sono progressivi ma esponenziali.

I pronostici per il 2050 varierebbero dunque da «peggio» a «molto peggio».