La settimana prossima, il socialista Salvador Illa sarà president del governo catalano. Un passo che chiuderà un lungo ciclo politico dove l’indipendentismo è stato protagonista e che riporterà i socialisti alla guida dell’esecutivo regionale dopo 14 anni. In alleanza con i Comuns di Jessica Albiach (e Ada Colau) e l’appoggio esterno di Esquerra Republicana.

Ieri il 77% degli 8200 iscritti di Esquerra ha votato il preaccordo che il partito aveva già siglato con il partito socialista catalano per dare il via libera al candidato socialista alla presidenza. Il 53,5% lo ha appoggiato. Ora manca solo che il presidente del Parlament, Josep Rull, dello stesso partito di Carles Puigdemont (che sperava che Esquerra si schierasse per lui e non per il socialista, anche se per fare questo avrebbe avuto comunque bisogno di un’astensione socialista) convochi una seduta di investitura. Cosa che avverrà a giorni. Puigdemont ha promesso che ci sarà – nonostante il suo mandato di cattura sia ancora vigente – forse “apparendo” in Parlamento, inviolabile per la polizia.

Pedro Sánchez ha dovuto fare un doppio carpio che neppure Simone Biles. E non è chiaro che a lui riesca tanto bene come a lei. Portare a casa la presidenza del governo catalano ed evitare un’ennesima campagna elettorale (senza investitura si andrebbe a una nuova chiamata alle urne regionali) era un’assoluta priorità per lui. Tanto che non ha esitato a toccare il tema più delicato della politica spagnola: lo spinoso finanziamento regionale.

L’anomalia è che esistono due regioni, Euskadi (Paesi baschi) e Navarra, a cui è concessa un’eccezione rispetto alle altre regioni: possono raccogliere da sole i soldi delle imposte e passare in un secondo momento allo stato la parte che gli spetta, cioè esattamente il contrario di quello che accade per tutti gli altri territori. Il motivo è storico: fin dal XIX secolo, questi territori hanno goduto di un regime economico speciale dopo le cosiddette guerre carliste che è stato rispettato nella costituzione del 1978. La Catalogna, una delle zone più ricche del paese (dopo Madrid), chiede da anni un regime analogo e i successivi governi centrali si sono sempre opposti, nel timore di aprire un vaso di Pandora rispetto a tutte le altre regioni.

Il punto più succoso dell’accordo fra Psc e Erc è proprio che la Catalogna progressivamente potrà raccogliere le proprie tasse. Anche se rimane ancora vago come verrebbe calcolata la parte che dovrebbe passare allo stato per i servizi prestati e per solidarietà con le altre regioni, si stimano fra i 6 e i 10 miliardi in meno per Madrid. Euskadi e Navarra non hanno il peso del Pil che ha la Catalogna (7% contro circa il 20%) e alcuni temono che questo regime speciale potrebbe avere conseguenze molto importanti per il welfare degli altri cittadini spagnoli.

L’accordo ha generato una tempesta nello stesso partito socialista: tre presidenti regionali (Castiglia–La Mancha, Asturie e Aragona) si sono esplicitamente opposti, e molti altri storcono il naso. Anche in Sumar, alleato del governo, alcuni sono perplessi. Per non parlare dell’opposizione del Pp che sarà frontale.

Con il piccolo margine numerico che ha Sánchez in Parlamento, la sfida ora non solo è quella di far approvare le leggi che dovranno plasmare l’accordo catalano, che necessariamente dovranno passare per le Cortes di Madird. Ma anche – e soprattutto, giacché questa è la principale scommessa del premier highlander – approvare la finanziaria 2025, per dare un respiro al governo. Che in questo momento è in esercizio provvisorio, dato che Sánchez non è mai riuscito ad approvare la finanziaria 2024.

Sulla carta ora potrebbe essere ancora più difficile che un anno fa: è vero che l’altra volta fu proprio Esquerra, fra gli altri, a far saltare l’accordo. Ma stavolta potrebbe invece essere Junts, il partito di Puigdemont rimasto a bocca asciutta, a fare il diavolo a quattro.