Ultimo schiaffo, Trump rottama la presunzione d’innocenza dell’America
Killers in the Usa Affermando che ci sono molti assassini anche negli Stati Uniti il neopresidente ha inferto un nuovo colpo all’immagine storica del proprio Paese e del sogno americano
Killers in the Usa Affermando che ci sono molti assassini anche negli Stati Uniti il neopresidente ha inferto un nuovo colpo all’immagine storica del proprio Paese e del sogno americano
Nel goffo tentativo di legittimare la politica di apertura alla Russia avanzata dalla sua amministrazione, all’obiezione di Fox News che Vladimir Putin sarebbe un «killer», Donald Trump ha obiettato che ci sono molti assassini anche negli Stati Uniti e ha messo in discussione l’idea stessa dell’innocenza dell’America. Quest’ultima affermazione si configura come un nuovo colpo inferto dal neopresidente repubblicano all’immagine del proprio Paese, dopo che i decreti della fine di gennaio, appena sospesi dai tribunali federali, avevano contribuito a demolire la percezione degli Stati Uniti quale terra di immigrati.
La consapevolezza della propria presunta innocenza rappresenta uno dei fondamenti del cosiddetto eccezionalismo americano, cioè del concetto che l’esperienza storica degli Stati Uniti sarebbe differente da quella di qualsiasi altra nazione e che tale diversità giustificherebbe di per se stessa il progetto di Washington di rigenerare il resto del mondo, diffondendovi il proprio modello di società.
Questo obiettivo era emerso già nel 1630, prima ancora della costituzione degli Stati Uniti in nazione sovrana, quando i puritani erano sbarcati in Massachusetts non solo con l’intento di sottrarsi all’intolleranza confessionale subita in Europa, ma anche con il proposito di ritornare all’innocenza spirituale che l’umanità aveva perduto con il peccato originale. Declinato non più in termini religiosi ma con una valenza esclusivamente politica, dopo la nascita degli Stati Uniti nel 1776 il connubio di innocenza e diversità ha avallato ideologicamente per secoli la presunzione di Washington di essere la guida del mondo libero e il disegno di presentare le istituzioni americane repubblicane e democratiche come l’unica alternativa in positivo al dispotismo monarchico nell’Ottocento, all’autoritarismo degli imperi tedesco e austro-ungarico al tempo della prima guerra mondiale, ai regimi nazi-fascisti nel corso del secondo conflitto mondiale, al totalitarismo comunista durante la guerra fredda e all’estremismo terroristico di matrice islamica dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
La pretesa dei governi statunitensi era ovviamente un mito. Lo evidenziò in special modo l’intervento armato nel Vietnam negli anni Sessanta del Novecento, quando il sostegno alla dittatura militare di Saigon fu celato sotto il pretesto propagandistico che Washington avesse inviato uomini e mezzi per difendere la libertà e la democrazia nel sud-est asiatico. Eppure tutti i presidenti degli Stati Uniti si sono sempre impegnati ad alimentare la nozione dell’eccezionalità e dell’innocenza del loro Paese, soprattutto nei periodi di emergenza nazionale. Lo hanno fatto non solo attraverso enunciazioni retoriche, ma pure con provvedimenti concreti. Per esempio, dopo che la commissione Church ebbe documentato il coinvolgimento della Cia in operazioni per uccidere leader stranieri sgraditi a Washington, tra cui Fidel Castro, nel 1976 il presidente repubblicano Gerald Ford emanò un ordine esecutivo per vietare a qualsiasi dipendente del governo federale, compresi gli appartenenti ai servizi d’intelligence, di commettere omicidi per finalità politiche.
Ronald Reagan, il presidente a cui Trump viene più spesso accostato, espresse più volte la convinzione che l’eccezionalità statunitense scaturita dalle virtù nazionali assegnasse a Washington la leadership del pianeta e fece addirittura riferimento al messaggio dei puritani nel suo ultimo discorso alla nazione. Anche Barack Obama, pur manifestando una buona dose di scetticismo sulla perfezione degli Stati Uniti e malgrado un certo tergiversare sull’assunzione di nuove responsabilità internazionali, ribadì sempre la sua fiducia nella natura virtuosa dell’America e continuò a considerare il proprio Paese come un partner indispensabile della comunità internazionale per il mantenimento della sicurezza collettiva e per la stabilizzazione del sistema globale. Così, per restituire credibilità a Washington dopo lo scandalo sulla violazione dei diritti umani dei prigionieri della cosiddetta «guerra al terrorismo» sotto l’amministrazione di George W. Bush, mise al bando il ricorso alla tortura e chiuse le prigioni segrete (come i famigerati centri di detenzione di Abu Ghraib in Iraq e Bagram in Afghanistan) di cui si era avvalsa la Cia.
Invece, evidentemente non abbastanza soddisfatto di aver definito in precedenza il water boarding come un’efficace tecnica di interrogatorio per sgominare l’Isis, Trump, nell’intervista a Fox News, ha teorizzato in maniera esplicita un relativismo etico al quale tutti i suoi predecessori hanno invece cercato di sottrarsi almeno a parole. Le sue dichiarazioni sono l’ultimo schiaffo, in ordine di tempo, che l’isolazionismo demagogico e populista dell’«America First» ha dato agli ideali del sogno americano.
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