La campagna elettorale peggiore di sempre, la più lunga, la più faticosa, la meno entusiasmante della storia del paese, è finalmente conclusa.

L’America va al voto più numerosa, continuando un’inversione di tendenza cominciata nel 2004, quando si erano resi conto che il broglio della Florida poteva esser fatto perché a separare Gore da Bush c’erano giusto un pugno di voti, quei pochi ma decisivi voti.

Votare è importante, questo messaggio è arrivato negli Stati uniti e viene ripetuto fino allo sfinimento: «Non importa per chi, ma vota», tanto che perfino Google oggi negli States utilizza il proprio doodle in home page per invitare la popolazione, qualsiasi sia la lingua d’origine, ad andare a votare. I businessmen oggi si prendono una pausa; specie i negozianti, o i proprietari di affari in giro per il paese. Tutto chiuso: un giorno extra di ferie pagate ai propri lavoratori per permettere loro di votare con serenità, specie nello Stato d New York, visto che entrambi i candidati saranno a Manhattan e la città ne verrà paralizzata o quasi.

I newyorchesi, comunque, in una gloriosa giornata di sole, si sono recati in massa alle urne, già dalla prima mattina per eleggere il loro prossimo presidente. Si sono formate lunghe file, ordinate, davanti ai seggi, che si sono aperti in una serie di Stati alle 6 locali; la stessa Hillary Clinton ha votato poco dopo le otto nello stato di New York, poi si è avvicinata alla folla dei suoi sostenitori, stringendo mani e ringraziando.

Trump, invece, ha votato a Manhattan ma non ha trovato sostenitori ad accoglierlo, bensì una serie di contestatori che in modo diretto ma non propriamente educato gli hanno comunicato un dato che, comunque, lui già conosceva, cioè che Manhattan non è sua, e che non sta votando per lui.

New York è anche uno di quegli Stati in cui si pensa che i verdi prenderanno più voti in quanto, proprio perché in uno Stato non in bilico ma sicuramente democratico, i liberal che non se la sentono di votare per Clinton, come ad esempio l’attrice Susan Sarandon, qua possono votare Stein in tranquillità, sapendo che il proprio voto non comprometterà la lotta a Trump. Rimane un segnale vivo e determinato – per quanto inutile ai fini della vittoria, al Partito democratico.

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Sempre a New York, ma non solo, molte donne dopo aver votato prendono l’adesivo che viene regalato dopo il voto con la scritta «Io ho votato» e lo attaccano alle tombe delle suffragette seppellite nei cimiteri che, come nella tradizione anglosassone, si trovano nei centri cittadini: un modo per ringraziare e onorare la loro lotta per il diritto di voto alle donne, in una tornata elettorale che vede la prima candidata donna correre per la presidenza degli Stati uniti.

Sul fronte repubblicano, mentre Hillary ha concluso ufficialmente e con tutti gli onori la sua campagna ieri sera in Pennsylvania Trump, visto che in America non esiste silenzio elettorale continua fino all’ultimo momento e il suo ultimo comizio sarà proprio durante l’election day, non a caso in Michigan, stato dove ha concentrato molti dei suoi sforzi, vista la sua composizione di «stato bianco», classe media impoverita con mole famiglie monoreddito il cui «capo-famiglia», bianco, di cultura bassa e disoccupato, è proprio il ritratto dell’elettore esasperato che vede in Trump un possibile alternativa alla vituperata, ai loro occhi, elite liberal. O contro, genericamente, quell’establishment, che, a suo parere, gli ha causato un tracollo verticale. In questi ultimi comizi Trump, nonostante il parere contrario del suo staff, ha veicolato solo e prevalentemente contenuti anti Clinton, più che programmatici, affermando che questa elezione sarà un processo a lei ed invitando gli americani a giudicarla.

Un risultato, però, lo staff di Trump è riuscito a portarlo a casa, quello, cioè di requisirgli i telefoni e impedirgli di usare Twitter per 48 ore; social media che «The Donald» non riesce minimamente governare, figuriamoci un paese, dicono in tanti.