Nubi nere si addensano sul destino del clan Bolsonaro. L’ultima di una serie di cattive notizie per la famiglia presidenziale viene dall’arresto di Fabrício Queiroz – ex autista e capo della sicurezza del primogenito Flávio – nelle cui mani sarebbero passati due milioni di reais (circa 334mila euro) versati da impiegati «fantasma» assunti dal gabinetto del figlio del presidente quando era deputato nell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, dal 2003 al 2018.

È IL SISTEMA NOTO come rachadinha, nel cui quadro il maggiore dei figli di Bolsonaro, lo «zero uno», è indagato per riciclaggio di denaro. Con l’aggravante che tra tali impiegati figura anche Danielle Mendonça, l’ex moglie di Adriano Nóbrega, il capo (ucciso dalla polizia nel febbraio scorso) di una delle più violente e antiche milizie della città, Escritório do Crime, indicata come responsabile dell’assassinio dell’attivista nera e consigliera comunale a Rio de Janiero, Marielle Franco, e del suo autista Anderson Gomes.

Di tale schema di corruzione Queiroz era sicuramente l’uomo chiave. Non a caso lo scandalo era esploso proprio con la scoperta di transazioni sospette sul suo conto, per un totale di 1,28 milioni di reais tra il 2017 e il 2018, tra cui un versamento di 24mila reais a favore della moglie del presidente. Si intende bene allora come, dal momento in cui l’ex autista si era reso irreperibile, la domanda «Dov’è Queiroz?» perseguitasse senza sosta la famiglia presidenziale.

DOVE FOSSE FINITO è da ieri finalmente noto: in un immobile dell’avvocato di Flávio, Frederick Wassef, ad Atibaia, all’interno dello Stato di São Paulo. È qui che è stato arrestato dalla locale polizia civile. Decisamente una pessima notizia per il clan.

Ma i guai per Bolsonaro non finiscono qui. Dopo essersi illuso di poter tirare impunemente la corda, il presidente si trova finalmente dinanzi a un principio di controffensiva democratica. Così, mentre per le strade i suoi militanti cedono il terreno ai movimenti anti-fascisti, il potere giudiziario – innegabilmente complice della svolta autoritaria seguita al golpe contro Dilma Rousseff – inizia a contrastare l’assalto alle istituzioni da parte del bolsonarismo.

Due i procedimenti giudiziari in corso contro il presidente: quello aperto dalla Corte suprema in seguito alle denunce dell’ex ministro della giustizia (ed ex procuratore, responsabile dell’incriminazione e l’arresto di Lula) Sergio Moro sulle sue presunte interferenze nei riguardi della polizia federale e quello condotto dal Tribunale superiore elettorale riguardo alla possibile – benché del tutto improbabile – cassazione del mandato del presidente e del suo vice (in relazione soprattutto alla campagna mirata alla diffusione di fake news contro Haddad, Lula e il Pt durante il processo elettorale).

MA NEPPURE VA MEGLIO alla base estremista del governo, raggiunta lunedì da una serie di perquisizioni e sequestri compiuti dalla polizia federale contro 21 indagati nell’ambito dell’inchiesta coordinata dalla Corte suprema sulle azioni antidemocratiche organizzate da alcuni manifestanti. Una su tutte, l’iniziativa promossa dal movimento politico di estrema destra «Gruppo 300 del Brasile» che lo scorso sabato aveva esploso fuochi d’artificio in direzione della sede del Supremo tribunale elettorale.

Un’azione pagata non solo con lo sgombero dell’accampamento che il gruppo aveva provocatoriamente allestito nella Esplanada dos Ministérios, ma anche con l’arresto della personalità più in vista del movimento, l’attivista Sara Giromini, meglio conosciuta come Sara Winter, e di altre cinque persone sospettate di aver organizzato l’attacco.

A QUESTA OFFENSIVA interna il presidente Jair Bolsonaro reagisce come sempre a modo suo, alzando ancora il livello delle minacce (auto)golpiste: «Sta arrivando il momento in cui tutto sarà rimesso al posto giusto», ha promesso ai suoi sostenitori.