Per quanto profondo il senso di frustrazione, i popoli indigeni del Brasile sono più che mai determinati a resistere. È questo il messaggio trasmesso dalla 20.ma edizione dell’Acampamento Terra Livre (Atl), la maggiore mobilitazione indigena del paese, a cui quest’anno hanno preso parte 8mila rappresentanti dei popoli originari accorsi a Brasilia dal 22 aprile fino a venerdì scorso.

Una frustrazione palpabile e chiaramente esplicitata: sotto il governo “amico” di Lula, quest’anno non invitato all’Accampamento, le cose non stanno andando come era lecito attendersi. Perlomeno riguardo al processo di demarcazione delle terre rivendicate dagli indigeni, condizione imprescindibile per la conquista di tutti gli altri diritti. Quel processo, secondo la Costituzione del 1988, avrebbe dovuto essere ultimato entro cinque anni. E invece di anni ne sono passati 36 e sono ancora 254 le aree che attendono l’omologazione finale, senza contare quelle per cui non è stato compiuto neanche il primo passo.

Lo scorso anno, il primo del suo terzo mandato, Lula aveva realizzato otto omologazioni, a fronte delle 14 attese dal movimento indigeno dopo i quattro anni infernali del governo Bolsonaro. E la speranza era che le sei ancora in sospeso venissero annunciate dal presidente il 18 aprile, in occasione della prima riunione del Consiglio nazionale di politica indigenista, alla presenza dei rappresentanti di tutte e sei le terre interessate. All’ultimo minuto, tuttavia, il governo aveva fatto marcia indietro, limitandosi a omologare appena due aree – una in Bahia e l’altra in Mato Grosso – con una giustificazione aspramente contestata: poiché alcune terre, aveva spiegato Lula, sono occupate da non indigeni, i governatori hanno chiesto tempo per offrire loro una sistemazione adeguata. E «noi glielo daremo». Un precedente pericolosissimo, secondo l’Apib (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil), destinato a legittimare l’interferenza – incostituzionale – dei governatori, la maggior parte dei quali ostile al processo di demarcazione.

A complicare ulteriormente la situazione c’è poi la terribile minaccia rappresenta dalla tesi del marco temporal (secondo cui i popoli indigeni possono rivendicare solo le terre che occupavano al momento della promulgazione della Costituzione nel 1988), approvata dal Congresso malgrado la sua bocciatura da parte della Corte Suprema. Non a caso, il tema scelto per l’Atl di quest’anno è stato proprio la risposta alla famigerata tesi della lobby ruralista: «Nosso marco é ancestral, sempre estivemos aqui».
Ed è proprio l’immediata dichiarazione di incostituzionalità dell’applicazione di un limite temporale una delle 24 richieste ai tre poteri dello stato avanzate nella lettera-manifesto divulgata il 22 aprile, tra le quali risalta in particolare quella relativa all’urgenza delle demarcazioni, legata alla denuncia di una escalation di violenza contro i popoli originari. Di certo la promessa fatta da Lula nell’Atl del 2023, quella di riconoscere tutte le aree indigene entro la fine del suo mandato, diventa sempre più irrealizzabile, come ha ammesso anche la ministra dei popoli indigeni Sonia Guajajara: «Considerato il ritardo, non posso garantire che nei due anni e 8 mesi che restano saranno demarcate tutte le terre».

C’è stato, tuttavia, anche qualcosa da celebrare, come per esempio la creazione, nei vent’anni trascorsi dal primo Atl, di un’alleanza per nulla scontata tra i popoli indigeni di tutto il Brasile. «Ci sono visioni del mondo, spiritualità, tradizioni molto diverse tra i vari popoli», ha evidenziato il leader del popolo Tingui-Botó di Alagoas Marcos Subaru, ma tutti «hanno accettato di lottare insieme. Esiste tra di noi un’alleanza, pur senza conoscerci molto tra di noi”.