Tra le immagini di Clarice Lispector più condivise nel web ve ne è una in bianco e nero dal sapore chandleriano, che la mostra in piedi davanti a un tavolino con sopra una macchina da scrivere. La donna, colta di profilo, ha la mano destra sul fianco e una sigaretta fumante nella sinistra, sospesa sopra i tasti. La posa è sensuale e fiera, il volto pensoso, lo sguardo fatalmente rivolto al foglio che spunta dal rullo. La maglia tesa sulla curva perfetta del seno conferisce alla scrittrice l’aura spregiudicata di una femme fatale appena uscita da un film noir americano degli anni Quaranta. Una Lauren Bacall delle lettere. Non stupisce che una foto tanto accattivante venga spesso scelta a illustrazione. Peccato che la donna ritratta non sia Lispector ma una modella con la passione della scrittura, e che la foto faccia parte in realtà di una serie di scatti comparsi su «Playboy». Frutto della superficialità, questo banale errore può acquistare una sua accidentale coerenza, se visto alla luce del mito che avvolge la persona dell’autrice.

Improbabili paragoni
Al momento della morte, a Rio de Janeiro per malattia nel 1977, un giorno prima del suo cinquantasettesimo compleanno, Clarice Lispector restava per molti un enigma. Malgrado non fosse affatto una reclusa, malgrado avesse girato il mondo, frequentato scrittori, artisti e ambienti di vario tipo, malgrado concedesse interviste e fosse apparsa più di una volta in televisione, venivano sollevati dubbi circa il suo luogo di origine, la sua età, il suo vero nome, l’orientamento politico, la fede religiosa. Qualcuno arrivò al punto di sostenere che fosse in effetti un uomo. Agli occhi di molti suoi connazionali sembrava una straniera non tanto perché era nata in un villaggio dell’Ucraina «così piccolo e insignificante da non essere nemmeno indicato sulle mappe» quanto perché dopo il matrimonio con un diplomatico aveva trascorso molti anni all’estero, e soprattutto per il suo modo di parlare, la sua strana erre dal suono francese, un difetto di pronuncia che provò a correggere ma che finì sempre per riemergere, come a marcare un conflitto irrisolvibile tra il bisogno di sentirsi brasiliana e l’impossibilità di rinunciare a una forma di alterità. Non per niente poteva definirsi «così misteriosa che nemmeno io capisco me stessa» e ridurre al contempo il suo mistero al fatto «che non ho misteri».

Sapeva essere loquace quanto elusiva, unire al desiderio di difendere la sua vita privata quello non meno intenso di «confessarsi in pubblico e non a un prete.» Questa sua natura solo in apparenza contraddittoria, che fa di lei un modello esemplare di come pensarsi scrittori nel secolo scorso e in fondo anche in questo, ha alimentato la costruzione di un personaggio sul quale – come avveniva in Argentina con Borges – ognuno aveva qualcosa da dire o un aneddoto raccontare. Da qui il proliferare di ritratti che la dipingono come una sfinge, un lupo dagli zigomi alti e gli occhi a mandorla, un’aliena scesa sulla terra con sembianze simili a quelle di Marlene Dietrich per scrivere come Virgina Woolf.

Per non parlare di definizioni iperboliche come quella, spesso citata, per cui Clarice Lispector «era ciò che sarebbe stato Kafka se Kafka fosse stato una donna o se Rilke fosse stato un ebreo brasiliano nato in Ucraina. Se Rimbaud fosse stato una madre e avesse raggiunto i cinquant’anni di età. Se Heidegger avesse cessato di essere tedesco». Una simile infilata di nomi illustri ha senso soltanto nel fantomatico mondo dei se e restituisce comunque un’immagine falsa, proprio come la foto di «Playboy» in cui qualcuno ha creduto di riconoscere la scrittrice.

Prendiamo il paragone a prima vista più suadente e persuasivo, quello con Kafka. Se si escludono la blatta morente che la ricca signora di La passione secondo G.H. mette in bocca all’apice di una crisi mistica e l’ostinazione di cercare Dio in un mondo in cui Dio è morto, la distanza tra i due autori, in particolare sul piano dello stile, della voce, è siderale. Forse il solo libro in cui la pagina di Lispector lo evoca, a tratti, è La città assediata (Adelphi, pp. 186, € 18,00), che per la sua imperscrutabilità arriva da noi soltanto ora nella bellissima versione di Roberto Francavilla e Elena Manzato e che anche in Brasile, all’epoca, faticò a trovare un editore nonostante l’autrice godesse già di una certa fama.

Rispetto al fortunato esordio di Vicino al cuore selvaggio, lo stile era infatti completamente diverso. Lispector abbandonava i vortici del monologo interiore per la narrazione in terza persona, una scrittura dalle sembianze gelide e distaccate in cui a avere la meglio non era la trama ma un susseguirsi di dettagli e immagini isolate che spostavano la partita verso lo spaesamento surrealista o il nitore visionario: di Kafka, appunto. In frasi semplici e perfette come «Le persone da lontano erano ormai nere. E le righe di terra fra le pietre erano scure. Lucrécia Neves attendeva eterea, tranquilla. Sistemando senza guardarli i nastri del vestito» si respira l’aria onirica e notturna di certi paesaggi urbani di Paul Delvaux o quella ancora più sfuggente del Castello, quando Kafka scrive: «Il villaggio era sprofondato nella neve. Del monte del castello non si vedeva nulla, nebbia e tenebra lo circondavano».

Anche la storia è di una semplicità perfetta. Lucrécia è una giovane donna. La vediamo crescere, dividersi tra due pretendenti, sposarsi, restare vedova, sposarsi di nuovo. Il tutto in un luogo immaginario che, da piccolo villaggio popolato da cavalli selvaggi, cresce come cresce Lucrécia, diventando una moderna città da cui gli animali vengono a poco a poco espulsi.

Una vacuità apparente
Lucrécia non ha il fuoco, lo spirito ribelle delle ragazze cui Lispector aveva dato voce fino a allora; è invece un persona superficiale, mossa da ambizioni futili e meramente materiali. Accetta il ruolo che la società le assegna, contenta di diventare una cosa in un mondo di cose; sembra quasi una versione ironica della donna descritta da Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, che vide le stampe proprio nel 1949, lo stesso anno in cui uscì la prima versione della Città assediata: «Lucrécia Neves aveva bisogno di tantissime cose: di una gonna a quadretti e di un cappellino della stessa fattura; da tempo ha bisogno di sentirsi come la vedrebbero gli altri, in gonna e cappellino a quadretti, la cintura proprio all’altezza dei fianchi e un fiore sulla cintura: così vestita avrebbe guardato il sobborgo e questo si sarebbe trasformato».

E tuttavia dietro la vacuità apparente, dietro i tratti di una donna «in qualche modo stupida» o almeno estranea al pensiero e agli sforzi di immaginazione, si nasconde una mistica malinconia, un anelito alla trascendenza incapace di affrancarsi dalla nostalgia delle cose materiali. «L’oggetto – la cosa – mi ha sempre affascinata e in certa maniera mi ha distrutta» spiegherà anni dopo la scrittrice. «Nel mio libro La città assediata parlo indirettamente del mistero della cosa. La cosa è un animale specializzato e reso immobile».

Tentando un’altra descrizione, un altro ritratto suggestivo, si potrebbe forse dire che Lispector avrebbe voluto essere Lucrécia, se Lispector non fosse stata Clarice. Ma sarebbe anch’essa un’immagine falsa. La bellezza suprema, il silenzio sublime e stordente cui tende La città assediata è come una porta senza chiave, un mistero senza misteri.