Anche alle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 28 luglio, Nicolás Maduro correrà praticamente da solo. E stavolta non per la decisione dell’estrema destra di sabotare il processo elettorale, ma perché nessun oppositore con minime chance di vittoria ha potuto iscrivere la propria candidatura. Se insomma gli accordi tra governo venezuelano e opposizione firmati il 17 ottobre a Bridgetown, nelle Barbados, avevano illuso riguardo alla possibilità di una vera riconciliazione nel paese attraverso la celebrazione di elezioni realmente democratiche e partecipate, tutto sembra tornare al punto di partenza.

Che sia stata dichiarata ineleggibile María Corina Machado, trionfatrice il 22 ottobre scorso delle primarie dell’opposizione radicale, non poteva in realtà sorprendere più di tanto: dopotutto, tra la sua partecipazione al colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chávez, il suo sostegno al governo ad interim di Juan Guaidó e le sue invocazioni all’intervento straniero, in qualsiasi altro paese sarebbe da un pezzo finita in galera. Non a caso, respingendo il ricorso da lei presentato contro l’inabilitazione politica comminata dalla magistratura contabile per presunti reati amministrativi, la Corte suprema aveva evidenziato la sua partecipazione alla «trama di corruzione orchestrata dall’usurpatore Guaidò che ha propiziato l’embargo criminale» del paese, causando danni per miliardi di dollari.

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Assai meno comprensibile, tuttavia, è che la Plataforma unitaria non sia riuscita a iscrivere nel sistema on-line del Consiglio nazionale elettorale quella che Machado aveva designato come propria sostituta: l’ottantenne filosofa e docente universitaria senza esperienza politica Corina Yoris. Come pure che il Cne abbia respinto la richiesta di prorogare di tre giorni il termine delle iscrizioni, dal 25 al 28 marzo (che tale termine sia stato fissato con tanto anticipo rispetto alla data delle elezioni è stato visto dall’opposizione come uno stratagemma per impedirle di organizzarsi).

E ancor meno comprensibile è che neppure a sinistra del Psuv (Partido Socialista Unido de Venezuela), cioè nella sinistra chavista ma non madurista di certo estranea a ogni manovra destabilizzatrice, nessuno sia riuscito a iscriversi: né l’ex governatore di Mérida Alexis Ramírez, né l’economista dell’Encuentro Popular Alternativo Andrés Giuseppe e neppure Manuel Isidro Molina, sostenuto da diverse organizzazioni, compreso il Partido Comunista de Venezuela, riunite nell’Alianza Popular Revolucionaria. È un «apartheid elettorale», ha denunciato Molina, parlando di imposizione da parte del governo di candidature «gradite e teleguidate, con partiti prefabbricati dal giorno alla notte e decine di forze politiche estromesse dalla giustizia».

Così, a contendere – si fa per dire – la presidenza a Maduro saranno tredici candidati dell’opposizione più o meno moderata con nulle possibilità di vittoria, tra cui il pastore evangelico Javier Bertucci, il comico Benjamín Rausseo, l’eterno candidato presidenziale Claudio Fermín, il feroce critico della destra estremista Luis Ratti. A pochi minuti dalla mezzanotte dell’ultimo giorno utile per le iscrizioni presso il Consiglio nazionale elettorale, il partito di opposizione Un Nuevo Tiempo è riuscito a registrare come candidato il governatore di Zulia – un tempo acerrimo rivale di Chávez – Manuel Rosales.

Senz’altro la figura più in vista tra gli avversari di Maduro, ma non certo tale da impensierire seriamente l’attuale presidente. A meno che tutta l’opposizione non decida di compattarsi intorno al suo nome: ipotesi assai improbabile considerando la cronica litigiosità tra i vari rappresentanti delle destre e le accuse di tradimento che la Plataforma unitaria gli ha immediatamente rivolto.

Anche tra gli storici alleati latinoamericani di Maduro si sono alzate stavolta – ed è la prima volta – delle critiche: che siano governi come quelli dell’Argentina, dell’Uruguay o dell’Ecuador a mettere in dubbio l’integrità e la trasparenza delle elezioni non desta alcuna meraviglia, ma che siano stati “amici” come Lula e Petro a esprimere preoccupazione riguardo allo sviluppo del processo elettorale è tutta un’altra storia.