*L’articolo è stato realizzato da Nicole Corritore in collaborazione con l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa.

 

Trent’anni fa sei stato uno dei 500 che hanno partecipato a quella che è stata chiamata “Marcia dei 500” verso Sarajevo. Cosa ti ha spinto a farne parte?

All’epoca seguivo la Jugoslavia da giornalista da giugno 1991. Un paese importante, membro fondatore delle Nazioni Unite e leader del movimento dei “non allineati”. Confesso il limite di sentirmi personalmente coinvolto in quella storia. Ogni cronista dovrebbe limitarsi a raccontare fatti, controllando le emozioni. Resta il fatto che conoscevo bene quelle terre. Ricordi d’infanzia. Niente in confronto ai tuoi, che mi stai intervistando, ma un poco anche per me quella era una “guerra in casa”, rubando il titolo dell’imprescindibile libro sulle guerre jugoslave scritto (e vissuto) dal nostro comune amico Luca Rastello.

“Marcia dei 500” a Sarajevo

Non so se partecipai più da giornalista alla marcia dei “500”, o sperando che quella che alcuni definirono “una pazzia” e don Tonino Bello “un’azione profetica” riuscisse davvero. Credo l’uno e l’altro. Del resto, il lavoro in sé non basta a definire l’identità di una persona… per dire, ho sempre preferito dire “faccio” il giornalista, piuttosto che “sono” un giornalista. Certamente quell’intrusione di persone disarmate e con le mani alzate in un conflitto, aveva un grande fascino. Certamente era anche una notizia da non “bucare” e bisognava esserci per testimoniare quello che poteva accadere intorno a loro, cioè, a noi. Non era mai successo prima che una massa di persone comuni si interponesse in un conflitto, riuscendo ad entrare in una città assediata.

La non-violenza poteva fermare la guerra? Credo che nessuno tra i partecipanti non ci avesse sperato davvero, almeno per un minuto. Dicevano che quella era “l’Onu dei popoli”, che poteva aprire spazi ad una trattativa. Era un’idea ingenua, perché quella trattativa, in quel momento, non la voleva nessuno, ad eccezione dei cittadini assediati.

Fu un’iniziativa partita dal basso, ma la composizione dei partecipanti era variegata. Come si è formata l’idea e il gruppo che poi è partito?

Dipende da cosa vogliamo sottolineare. Erano certamente diverse le culture di riferimento dei partecipanti. Il gruppo, in realtà, era molto unito sulla scelta di mettersi in gioco personalmente per fermare qualcosa di inaccettabile. Si può arrivare alla stessa conclusione partendo dal rispetto di principi religiosi, come dalla volontà laica di combattere le ingiustizie.

C’erano sacerdoti, vescovi come Don Tonino Bello e Luigi Bettazzi, e militanti di base di sinistra, del movimenti pacifisti e non violenti. C’erano Gianfranco Bettin, deputato verde, Eugenio Melandri, missionario e deputato europeo di Democrazia Proletaria e intellettuali cattolici come Raniero La Valle. E tanti e tante altre. Soprattutto c’erano tante persone di ogni età, donne e uomini. Pensionati e studenti, suore e militanti comunisti. C’era di tutto.

Che fossero credenti o meno, sembravano molto uniti. Nel libretto con i nomi dei partecipanti non c’era alcuna gerarchia. Tutti in ordine alfabetico, con indirizzo e numero di telefono. L’unico gruppo assolutamente disomogeneo nella spedizione, cioè di testate di diverso orientamento, erano i giornalisti al seguito.

Una tra le accuse fatte ai partecipanti era quella di “imparzialità”, del non schierarsi con fermezza dalla parte degli aggrediti. Una cosa palesemente falsa. I 500 andavano a mettersi fisicamente dalla parte degli assediati. Non lo facevano a chiacchiere (oggi diremmo “da social”).

Sono andati a condividere il rischio di essere colpiti da una granata o da un tiratore scelto, come qualsiasi bambino di Sarajevo, mettendo in gioco (come ripetevano spesso) i loro corpi. Erano uniti nel rifiutare l’idea che la soluzione potesse venire dalle armi, pur non contestando il diritto all’autodifesa degli aggrediti.

“Marcia dei 500” a Sarajevo

Il viaggio fu abbastanza “burrascoso”. Ci puoi raccontare dalla partenza da Ancona fino all’arrivo a Sarajevo quali i momenti che ti sono rimasti impressi?

Francamente, ho creduto che la nave stesse per naufragare. Nel corridoio tra le cabine c’erano trenta centimetri di acqua e la nave sembrava inclinata su un lato. Con Luca del Re (che allora lavorava per VM-giornale), prendemmo le nostre cose e raggiungemmo il salone dove c’era il grosso dei partecipanti. Pensavamo di affrontare scene di panico, ma non c’era niente del genere. Qualcuno pregava, altri suonavano e cantavano.

La nave aveva subito danni e il viaggio sembrava non finire più. Non ricordo quante ore ci mettemmo. Sicuramente più del doppio del previsto. Ci dissero che a un certo punto la nave aveva lanciato l’SOS e che risultava “dispersa” in Adriatico. Una specie di training a quello che stavamo per affrontare.

I momenti più intensi che ricordo del viaggio su terra, furono il silenzio nell’autobus dove eravamo quando tutti videro le prime distruzioni. Case semplici, di campagna. Case “inoffensive”, bruciate e distrutte. Poi le assemblee a Kiseliak, nella palestra della scuola dove ci eravamo accampati. I training dei gruppi non-violenti. Lo stringersi le mani con gli occhi chiusi. Sicuramente il sorriso e l’atteggiamento di Tonino Bello dava coraggio a tutte e tutti. “Si va passo dopo passo, dove possiamo arrivare”, diceva, senza trasmettere quell’ansia da prestazione che caratterizzò la successiva marcia di “Mir Sada – Pace ora” nell’agosto del 1993.

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All’arrivo a Sarajevo come siete stati accolti e da chi? Sono avvenuti incontri, e in quali condizioni?

Entrammo a Sarajevo di notte. In quel caso non ero sul pullman con gli altri, ma in macchina, con Luca del Re. Notai che molti avevano messo gli zaini davanti ai finestrini laterali e si erano accentrati verso il centro dei bus, temendo schegge di granata o colpi di cecchini. Attraversammo i ceck-point da Kiseliak (croato-bosniaci) a Ilidža (serbo-bosniaci) e poi quelli di prima linea, tra serbi e bosniaci, per entrare in centro. Un gruppo di dieci partecipanti rimase “ostaggio volontario” a Ilidža, parte della città controllata dagli etno-nazionalisti serbo-bosniaci, mentre gli altri entrarono in città.

Viaggiavamo a luci spente. Entrando, la città era deserta e buia come solo una città in black-out può essere. Quasi tutti passarono la notte nella palestra di una scuola vicina al palazzo del consiglio comunale. La mattina ci fu una specie di corteo in centro, prima degli incontro ecumenici con i religiosi ortodossi, cattolici , ebrei e musulmani. Rimasi colpito dall’atteggiamento delle persone incontrate per strada. Stupore, sorrisi, applausi, abbracci. C’è una foto alla quale sono affezionato. Una foto rivela sempre l’opinione di chi scatta, e solo una parte della “verità”. Ci sono un gruppo di partecipanti alla marcia che passa per la strada, di spalle, e un uomo anziano col cappello che gli tende la mano sorridendo. Lui è fermo, e a fuoco, gli altri sono mossi. Uno resta, gli altri sono di passaggio, ma chi resta sorride. Per me è una sintesi.

Anche quando la colonna degli autobus lasciò la città lo fece tra i sorrisi della gente. Seguimmo la carovana fino all’ultimo chek-point bosniaco, poi, con altri giornalisti, rimanemmo ancora alcuni giorni a Sarajevo.

“Marcia dei 500” a Sarajevo

Nel tuo lavoro di fotogiornalista, che ti ha portato molte volte sia a Sarajevo sia in altre parti dei Balcani, quella marcia ha avuto un significato particolare nel lavoro successivo?

Confermò l’importanza di attraversare spesso le linee, di viaggiare il più possibile in auto, percorrendo molti chilometri. In questo modo hai la possibilità di incontrare le persone, quelle che la guerra voleva dividere, e di ascoltare le loro storie. Avvicinarsi il più possibile ai protagonisti è il privilegio e il limite di ogni cronista. Si rischia di perdere il senso del generale, delle responsabilità politiche che generano i conflitti. Per evitare questo bisogna cercare di mantenere la giusta distanza intellettuale che aiuta a capire le posizioni sul campo. Avvicinarsi è sempre importante, non solo per scattare una buona foto, ma anche per constatare che in tutte le guerre c’è una linea del fronte a-storica che unisce le vittime su entrambi i fronti. In questo senso (solo in questo) le guerre sono tutte uguali. Uno scontro impari tra chi le fa e chi le subisce.

Anche tra i combattenti può esserci affinità. La guerra corrompe e spinge a fare azioni disumane anche chi ha ragione. Se l’empatia con le vittime è immediata, con i combattenti è diverso. Ascoltare le loro ragioni è fastidioso. Significa ascoltare spiegazioni aberranti, che cercano di giustificare comportamenti contro natura. Bestemmiano le loro religioni o stravolgono la storia per spiegarti che prendere la mira e sparare a un bambino che gioca a palla è giusto. Conoscere chi lo fa, mentre lo fa, e raccontarlo, aiuta a costruire gli anticorpi per impedire che persone normali arrivino a compiere azioni mostruose. Tutti possiamo assomigliare anche a quei cecchini, non solo alle vittime. Chi posta sui social la foto di una bambina nera annegata in mare e la commenta scrivendo “cibo per pesci”, non è diverso da chi spara a un bambino con un fucile di precisione. In un contesto diverso farà lo stesso.

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SCHEDA 

L’idea di arrivare a Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina sotto assedio da aprile 1992, viene lanciata da Monsignor Tonino Bello nell’estate per cercare di dare un concreto contributo alla pace e alla giustizia in Bosnia con un’iniziativa nonviolenta. L’organizzazione viene assunta dai “Beati costruttori di Pace”. Dopo mesi di preparativi 500 pacifisti sono partiti da Ancona il 7 dicembre del ’92 con l’obiettivo di arrivare a Sarajevo il 10 dicembre in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani. Le difficoltà incontrate durante il viaggio li fa arrivare a Sarajevo la sera dell’11 e il 12 dicembre, in un giorno di cessate il fuoco, riescono a entrare nel centro città e partecipare a diversi incontri.