Il Libano è sempre stato una sorta di stazione per i siriani. Un luogo di passaggio verso altri paesi per chi non può o non vuole tornare in Siria quando il conflitto sarà finito, o una sala d’attesa per chi ancora nutre il desiderio di tornare a casa un giorno. Le stime dell’Unhcr parlano di 1.5 milione di rifugiati, di cui quasi l’80% privo del permesso di soggiorno (iqama) che in assenza del riconoscimento dello status di rifugiato (Beirut non ha firmato la Convezione di Ginevra del 1951), è una condizione necessaria sia per poter vivere nel paese senza il timore di deportazioni sia per poter chiedere un visto per andare via.

I SIRIANI sono bloccati in un paese che i libanesi lasciano in massa – ogni giorno si registrano centinaia di richieste di passaporto e sono in decine di migliaia a essere già partiti-, e per loro le vie d’uscita si stanno chiudendo. La crisi che sta strangolando il Libano – con la lira che è ormai carta straccia (il dollaro al mercato nero, cui fanno riferimento i libanesi, si cambia a 24.000 lire. Il tasso ufficiale è 1.500 lire), i prezzi schizzati alle stelle e il mercato del lavoro allo sfacelo – comporta anche una minore disponibilità da parte delle ambasciate a rilasciare anche visti turistici (primo passo per stabilirsi altrove). Inoltre, il Libano non ha uscite via terra, confinando con Israele con cui non ha mai firmato la pace e la Siria in guerra. In tanti negli ultimi due anni hanno tentato la rotta verso Cipro, e di recente si è fatta strada anche tra i siriani in Libano la possibilità di tentare la rotta europea attraverso la Bielorussia, per arrivare in Polonia. Così davanti agli uffici della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza c’è la fila per ottenere l’iqama; cosa non facile in realtà.

LE AUTORITÀ libanesi, denuncia Human Rights Watch, ostacolano il rinnovo dei permessi di soggiorno, introducono regole per rendere la vita dei siriani più difficile, insomma fanno pressione affinché tornino in Siria e per chi è entrato in Libano dopo l’aprile 2019 c’è la deportazione sommaria. Ma sono in tanti a non poterci proprio tornare, perché sono scesi in piazza contro il regime di Assad nel 2011 o perché sono nelle liste di coscrizione. I racconti di chi è rientrato non sono rassicuranti: interrogatori, arresti, torture, omicidi extragiudiziari, impossibilità di uscire dal paese. D’altronde sia per l’Unhcr sia per l’Unione europea, la Siria non è un paese sicuro per il ritorno dei rifugiati, infatti i rimpatri sono stati volontari.

IN LIBANO, però, alla crisi economica si aggiunge l’instabilità politica. «Non sappiamo che cosa succederà, il paese potrebbe esplodere e siamo intrappolati qui», spiega Ahmad (nome di fantasia), di Damasco in Libano da 5 anni. Uno stallo che dura da anni, nella consapevolezza che le possibilità di andare via si riducono ogni giorno, mentre il tempo trascorre per lo più chiusi in casa, con pochi soldi e scarse opportunità di lavoro, contando spesso sull’aiuto economico di parenti e amici che vivono all’estero. «Rivoluzione, crisi economica, Covid ed esplosione al porto; ero vicino, è stato terribile. Queste cose una dietro l’altra mi hanno dato il colpo di grazia. Dopo è arrivato l’isolamento», racconta Mansour (nome di fantasia), ricercatore che sta pensando al Qatar, «dove almeno non sarei un rifugiato». C’è chi invece il tempo lo trascorre per strada a mendicare, inseguendo con mazzi di rose gli stranieri con i dollari in tasca.

Decine di bambini per le strade di Beirut, sempre più buie per la mancanza di elettricità. La maggior parte dei rifugiati, si stima l’80%, vive nei centri abitati, spesso in case misere e sovraffollate, cercando di tirare avanti con lavori giornalieri. Il 90% dei siriani vive in condizioni di estrema povertà. Gli aiuti internazionali sono insufficienti, e al problema della mancanza di fondi si è aggiunta la crisi con la svalutazione della lira. In un’inchiesta della Reuters dello scorso giugno, si denuncia che dall’inizio della crisi nel 2019, «tra un terzo e la metà degli aiuti in contanti delle Nazioni Unite in Libano sono stati inghiottiti dalle banche» che scambiano la valuta locale con le agenzie Onu a tassi in media del 40% inferiori a quelli di mercato. Il sistema finanziario libanese ha sete di dollari e gli aiuti internazionali sono una delle poche fonti di valuta forte rimaste, da qui la resistenza alla cosiddetta dollarizzazione degli aiuti, che alcune agenzie sono riuscite a mettere in campo, ma la situazione resta frammentata. Ai beneficiari arriva poco: alcune centinaia di migliaia di lire che equivalgono a pochi dollari con cui far fronte a spese sempre più care; il prezzo dei beni alimentari è aumentato di oltre il 600 per cento negli ultimi due anni.

A PAGARE il prezzo più alto sono i bambini, per molti di loro la scuola è un ricordo lontano: nel 2021 tra i siriani la dispersione scolastica nella scuola primaria è stata del 25%, mentre il lavoro minorile è aumentato. In generale un terzo dei siriani in età scolare non ha mai ricevuto un’istruzione formale. Come Mariam (nome di fantasia), 19 anni di Deir el Zor, che vive in un campo a Khiam, nel sud del Libano a 5 Km dal confine israeliano. Mai andata a scuola, fa la bracciante per 20.000 lire al giorno. Davanti alla tenda in cui vive con la famiglia, le ceste con le melanzane messe a essiccare sono attaccate da sciami di mosche. Al futuro non ci pensa neanche, sa solo che non è potuta andare a lavorare perché è malata. In un campo vicino, invece, Mohammad, 60enne, tornerebbe in Siria subito se gli dessero i soldi per il viaggio, per la casa che ha perso e per ricominciare la sua vita a Raqqa, da cui è andato via 7 anni fa.

140 KM PIÙ A NORD, ad Arsal, enclave sunnita della valle della Bekaa alle pendici delle montagne dell’Anti-Libano, vicino al confine siriano, Lubna vive con il marito e 5 figli in una tenda condivisa con un’altra famiglia. «Ho 28 anni, ma me ne sento 100», riassume così tutte le fatiche degli ultimi 8 anni in Libano, dove è arrivata camminando nella neve. Dal 2014 Arsal è stata teatro del più grave sconfinamento del conflitto siriano in territorio libanese, che ha coinvolto le forze armate libanesi e diversi gruppi armati, tra cui lo Stato islamico; conclusosi nell’estate del 2017 con un’offensiva di Hezbollah che ha ripreso la cittadina in cui avevano trovato rifugio oltre 100mila siriani, più del doppio della popolazione locale.

Oggi sono circa 70mila. «Ho vissuto due guerre, ci sono stati momenti di terrore e non potevamo andarcene», continua Lubna che racconta delle difficoltà aumentate con la crisi economica e del desiderio di far studiare i figli. Nonostante ciò non ha alcuna intenzione di tornare in Siria: «Lì c’è ancora la guerra e la situazione economica è peggio di qui». Oltre 10 anni di conflitto hanno devastato le infrastrutture e l’economia siriana: anche la lira siriana è crollata, con un aumento del tasso di inflazione del 6.820% sui beni di consumo. «Ho letto che vorrebbero mandarci via. Non penso che ci forzeranno, ma tutto può accadere», conclude Lubna.

PER MOLTI ANNI i siriani sono stati la spina dorsale dell’economia libanese nell’agricoltura, nell’edilizia e nei servizi, di solito sfruttati e senza diritti. Questo però è stata una sorta di garanzia rispetto alla loro presenza nel paese. Un equilibrio precario che è stato spezzato dalla crisi che non soltanto ha drasticamente ridotto i loro già poveri guadagni, ma ha anche esacerbato la competizione con i libanesi ridotti a loro volta in povertà, e che spesso accusano la comunità internazionale di aiutare soltanto i rifugiati. Attacchi ai campi, coprifuoco, arresti arbitrari hanno costellato i 10 anni di permanenza dei siriani nel paese, e già prima della crisi economica si era diffusa la narrativa del loro ritorno in massa in Siria. Adesso il timore di molti siriani è che i problemi economici del Libano diventino il pretesto per mettere in atto questa idea.