Affrontando in Playing in the Dark le opere di alcuni dei più noti e celebrati autori bianchi statunitensi – fra i quali Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne e Ernest Hemingway – Toni Morrison si interroga sul ruolo che gioca l’ombra della razza nell’immaginario della letteratura nazionale, e su come la rappresentazione dell’America nera risulti «riflessiva, una straordinaria meditazione sull’Io, un’esplorazione potente delle paure e dei desideri che risiedono nella coscienza letteraria». Il suo intento non è concedere o revocare patenti di progressismo riguardo a una delle questioni più scottanti e irrisolte della storia americana moderna, quanto scavare nella coscienza del paese per rivelare i meccanismi di costruzione identitaria che vanno inevitabilmente a riversarsi nelle pagine più memorabili della tradizione statunitense. Comprendere il rapporto con l’ombra dell’altro afroamericano – ciò che il critico Eric Lott chiama lo «specchio nero» in cui la cultura dominante riflette le sue dinamiche inscindibili di attrazione e repulsione – comporta l’affacciarsi su una dimensione generativa della letteratura che, se opportunamente illuminata, può gettare a sua volta luce sui modi, mai lineari, con i quali la coscienza si mette in relazione con il reale e lo restituisce trasformato in un prodotto artistico.

Questa premessa permette di apprezzare un aspetto ancora sottovalutato nella produzione di Flannery O’ Connor,  della quale esce ora una selezione azzeccata dei racconti – Il geranio e altre storie (traduzione di Gaja Cenciarelli, minimum fax, pp. 234, € 17,00). Nota maestra della short story, il cui tono inimitabile è sempre in bilico fra ironia grottesca e durezza, ha altrettanto notoriamente messo la sua raffinata tecnica narrativa e la sua  notevole densità allegorica al servizio di un afflato religioso: di fede cattolica ortodossa e incline al misticismo, O’ Connor era fortemente determinata a mettere la sua arte al servizio del divino. Come dimostrano le pagine appassionate del suo Diario di preghiera (pubblicato solo nel 2013), l’ironia brillante di una scrittrice pienamente cosciente del suo valore, trovava una controparte privata fatta di continue incertezze riguardo al proprio lavoro e al rapporto con Dio. «Caro Dio, non riesco ad amarti come vorrei», scrive – «sei la falce sottile di una luna crescente e io l’ombra della terra che mi impedisce di vedere la luna nella sua interezza». Un conflitto, quello tra luce e oscurità, che si ritrova intatto nei suoi racconti più riusciti, in cui la grazia divina è offuscata (o forse rivelata) da un mondo spietato e che si riflette anche, in modi tutt’altro che banali, nel rapporto dell’autrice – nata in un Sud gravato dalla storia della schiavitù e all’epoca ancora fortemente segregato – con la minoranza afroamericana.

O’ Connor ebbe in spregio la definizione di scrittrice regionalista, etichetta che il mercato editoriale della costa est, autoreferenziale e elitario, affibbiò anche ad altri celebri colleghi come William Faulkner e Eudora Welty. E, tuttavia, emancipato da ogni intento denigratorio, è un fatto innegabile che l’opera dell’autrice sia espressione di un sentire e di una visione del mondo tipicamente meridionale. Come spiega Angela Alaimo O’ Donnel in Radical Ambivalence: Race in Flannery O’ Connor, se il Sud è certamente «infestato dallo spettro di Cristo», la regione è forse in maniera ancor più decisiva marchiata dallo spettro delle relazioni razziali, che si riflette come una reticente ossessione  in tutta l’opera di O’ Connor. E non potrebbe essere altrimenti. Il breve periodo in cui la scrittrice si affacciò sulla scena letteraria nazionale coincide del tutto con il lavoro del Movimento per i diritti civili, che proprio al Sud effettuava alcune delle sue azioni più decisive come il boicottaggio degli autobus di Montgomery e il movimento dei sit-in. O’ Connor era una progressista convinta: parlò pubblicamente del suo supporto per J.F. Kennedy e per Martin Luther King Jr. Ma, allo stesso tempo, il retaggio culturale della Georgia rurale dalla quale proveniva andava costantemente a gettare ombra sui suoi ideali politici. «Sono un’integrazionista per principio e una segregazionista per inclinazione», scrisse in una delle sue lettere. «Non mi piacciono i negri. Mi danno tutti fastidio e più ne vedo, meno mi piacciono».

Le tracce di questa ambiguità sono disseminate lungo tutta la sua opera: i casi forse più noti si trovano nel «Negro artificiale» e in «Punto omega», racconti nei quali l’alterità nera è affrontata in maniera obliqua, attraverso epifanie di dubbio scioglimento, che lasciano intendere una dialettica faticosa e ancora irrisolta attraverso la quale O’ Connor cercava di venire a patti con un mondo in cambiamento. Anche nel Geranio e altre storie questa difficile relazione è evidente: nel racconto che dà il titolo alla raccolta, un vecchio signore del Sud si trasferisce a New York dalla figlia e, rifiutando di immergersi nella realtà frenetica della grande città, passa le sue giornate in poltrona a osservare un geranio sul davanzale della finestra di fronte. Lo scontro evidente tra il Sud agricolo e la modernità metropolitana viene ulteriormente complicata dall’assenza di quelle barriere razziali alle quali il vecchio è abituato: la gentilezza disinteressata del vicino afroamericano è un colpo mortale al suo equilibrio precario. Nel «Barbiere», il progressista Rayber (che ritroveremo fra i protagonisti di uno dei due romanzi di O’ Connor, Il cielo è dei violenti) si trova accerchiato e sconfitto dal silenzio con il quale una discussione politica viene accolta dal garzone nero, nella bottega in cui va a farsi radere ogni mattina.

«Il treno» – racconto che introduce il predicatore ateo Hazel Motes (qui Hazel Wickers), poi protagonista del primo romanzo della scrittrice, La saggezza nel sangue – mostra lo stesso spaesamento dei precedenti nel ritrarre un Sud bianco privo di punti di riferimento, incapace di tenere il passo con i tempi e destinato a scomparire nell’avanzare del progresso. C’è spazio anche per le tipiche riflessioni teologiche, inseparabili dalla poetica della scrittrice, in racconti come «La festa delle azalee» e «Amore e rabbia», dal quale O’ Connar avrebbe voluto trarre un terzo romanzo, oltre al «Pelapatate» e a «Enoch e il gorilla», testi che sarebbero confluiti nella Saggezza del sangue e che concedono al lettore uno scorcio privilegiato sul processo della  scrittura di O’ Connor.

Ma sembra che il maggiore interesse di questa raccolta risieda nel raccogliere riflessioni che esulano dalla sfera più propriamente religiosa per mostrare una scrittrice attenta alla realtà del suo tempo, dolorosamente scissa fra tradizione e mutamento in un’ambivalenza che probabilmente non le riuscì di riconciliare in vita, nonostante la cieca fiducia nella grazia divina. In questo Sud meschino, talvolta patetico e senza dubbio crudele, O’ Connor ritrae inevitabilmente anche se stessa, timidamente volta al futuro ma poi risospinta nell’oscurantismo delle gerarchie razziali e dell’ossessione per il peccato e la salvezza, cifre fondamentali della propria identità intellettuale e no. Tanto è vero che, nella sua opera, il tentativo di riconciliare questi poli non può che essere violento: per il personaggio di Hazel Motes, che si riempie le scarpe di sassi per punire la propria superbia, la catarsi è possibile solo attraverso la mortificazione, e forse il martirio. Le colpe del Sud, imperdonabili e impossibili da espiare, trovano nei racconti perfetti di Flannery O’ Connor una trasposizione tragicomica: testamento di una cultura prossima alla morte, e in cerca di una redenzione che non potrà arrivarle.