Nemmeno ventiquattrore dopo la prima proiezione pubblica di A Hidden Life, il nuovo film di Terrence Malick ha trovato un distributore americano, la Searchlight, lo stesso studio che, nel 2011, aveva comprato il film della Palma d’oro di quell’anno, Tree of Life. I quattro film realizzati da Malick tra allora e oggi -nota con perfidia Variety- combinati insieme, hanno incassato poco più di uno dei 12 -14 milioni che la Searchlight avrebbe pagato per assicurarsi il nuovo lavoro del regista texano Ma, dietro alla battuta cattiva, è l’approvazione quasi unanime delle riviste di settore e dell’industria Usa per il ritorno di Malick a una forma narrativa più lineare che non usava dai tempi di The New World (2005). Attori europei quasi sconosciuti (se si eccettuano brevissime apparizioni di Bruno Ganz e Matthias Schoenearts), e non la galleria di giovani star hollywoodiane che ultimamente facevano a gara per lavorare con Malick.

IL SOGGETTO tratto da una storia vera; anche i set (gli studi tedeschi di Balsberg e il panorama sublime delle montagne altoatesine) sono da questa parte dell’oceano: Malick segue la caleidoscopica, affascinante, ode all’universo di Voyage of Time (il suo film più astratto) con una parabola cristologica ispirata alla biografia di Franz Jagerstatter, un contadino austriaco di St. Radegund giustiziato a trentasei anni dai nazisti, per essersi rifiutato di giurare fedeltà a Hitler. Malick ha usato le lettere tra Jagerstatter e sua moglie Fani, scritte mentre lui era in carcere a Berlino – per intessere la struttura del film e sono spesso quelle corrispondenze, in voice over, che ascoltiamo sulle immagini, a cui il grandangolo spinto (la fotografia è di Jorge Widemer, l’uomo steadycam dell’abituale direttore della fotografia del regista, Emauel Lubezki.

E L’USO degli obbiettivi a focale corta ricorda quello di Inarritu in The Revenant) da un effetto di enormità. Ogni foglia di erba, ogni nuvola, ogni squarcio di roccia, ogni zolla di terra, ogni sfumatura di verde blu o bruno – e soprattutto l’amore tra Franz e Fani, e l’idillio campestre con le loro bionde bambine- sono amplificati, resi ancor più magnifici dalla grandezza divina. Era impossibile, guardando le quasi tre ore di A Hidden Life, non pensare a un altro film girato più o meno nelle stesse valli, con una frazione del budget, ma un’ambizione filosofica e di cinema altrettanto alta di quella di Malick. Anche Monte, di Amir Naderi, era -in un certo senso- un film sul rapporto tra un individuo e Dio/la natura; la storia di un uomo che rifiuta di piegarsi, viene emarginato dal suo villaggio e perde tutto; meno se stesso e la donna che lo ama. Tra questo Malick addomesticato alla linearità, tediograndioso (perfetto per le ossessioni di «scala» di questo festival) e il magnifico urlo di Naderi non c’è nemmeno corsa.