«Torkham?». «Jalalabad?». In piedi accanto alle loro auto o su e giù lungo la strada, i tassisti cercano clienti. Siamo sul lato opposto della moschea più «istituzionale» di Kabul, la Eid Gah. All’ingresso ci sono due blindati sottratti al vecchio esercito nazionale e ora in mano ai Talebani.

Solo poche settimane fa, il 3 ottobre, qui la branca localo dello Stato islamico ha condotto un attentato. Obiettivo, la cerimonia funebre per la madre di Zabihullah Mujahed, portavoce dell’autoproclamato Emirato e vice-ministro della Cultura del governo a interim. L’uomo senza il cui assenso non si muove informazione da Mazar-e-Sharif a Ghazni a Kandahar.

DA QUI SI PARTE per Torkham, il confine con il Pakistan, valvola di sfogo per un Paese da cui chi può va via, ma anche fonte di screzi diplomatici e ricatti commerciali. Oppure per Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, ormai da anni città termometro per capire i movimenti nella galassia jihadista a cavallo del confine, di qua e di là di quella Linea Durand su cui i Talebani non vogliono pronunciarsi per non indispettire Islamabad, che considera chiusa la questione. «Vieni, l’auto è dietro l’angolo. Ai Talebani non piace che sostiamo troppo a lungo qui davanti».

Il tragitto per Jalalabad costa tra i 300 e i 400 afghanis (3-4 euro) e passa per una strada tortuosa e splendida, su cui si è fatta la storia. Zoccoli di cavalli, scarponi militari, cingolati, blindati, auto civili finite in un’imboscata. È passato da qui William Brydon, il medico e ufficiale della Compagnie delle indie britanniche unico sopravvissuto alla ritirata delle truppe inglesi da Kabul, durante la prima guerra anglo-afghana. Partito con altri 4.500 soldati e migliaia di civili al seguito il 6 gennaio 1842 da Kabul, è arrivato a Jalalabad il 13 gennaio 1842.

UNICO SOPRAVVISSUTO. Non sono sopravvissuti neanche i quattro giornalisti partiti il 19 novembre 2001 da Jalalabad e diretti verso Kabul, in un convoglio con altre auto di colleghi. Sono stati uccisi nel distretto di Sorobi, lo stesso giorno. Erano il fotografo afghano Azizullah Haidari e il cameraman australiano Harry Burton, entrambi della Reuters; Julio Fuentes del quotidiano spagnolo El Mundo. E Maria Grazia Cutuli, giornalista catanese del Corriere della Sera, a cui ieri il quotidiano di via Solferino ha dedicato iniziative e incontri.

Maria Grazia Cutuli

Lungo la strada incontriamo un paio di convogli di automobili. L’auto in testa è addobbata con fiori rossi e lustrini colorati. Due ragazzi si sporgono dai finestrini anteriori agitando le braccia. Ci si sposa anche sotto i Talebani. Nelle aree rurali è un meccanismo di compensazione per le famiglie impoverite. Si dà in sposa la figlia per una bocca in meno da sfamare e una dote in più. I figli maschi vengono mandati al lavoro anziché a scuola.

Non ci sono più soldi. Qualcuno non li ha mai avuti: ogni tanto sorpassiamo un camion che arranca, carico di materassi, coperte, recipienti di plastica, carriole, utensili da cucina. Sopra a tutto, i bambini. L’inverno è in arrivo. Da Kabul, il cui clima non fa sconti, si va al «caldo», a Jalalabad. Mesi e mesi in tenda, ai margini del fiume, in attesa di qualcosa o qualcuno. Nelle mani di Allah.

IL «CONFINE» tra la provincia di Kabul e quella di Laghman è contrassegnato da due torrette. Dipinte, i colori ricordano quelli della vecchia bandiera afghana, nero, rosso e verde, ai quali i Talebani oppongono quella dell’Emirato. I ragazzi che vendono gadget tra le auto non fanno distinzioni. Un regime vale l’altro: nella mano destra le foto di mullah Omar, fondatore dei Talebani e primo Amir ul-Muminin, guida dei fedeli, vicino a lui Haibatullah Akhundzada, l’attuale leader, da molti dato per morto. Nella mano sinistra la bandiera della Repubblica islamica venuta giù a metà agosto. Con la fuga del presidente Ashraf Ghani.

Appena prima del «confine» Kabul-Laghman c’è una piazzola. Ci si ferma a lavare l’auto. Un ristorantino, un negozio di bibite, biscotti, poca frutta. Verso il fondo valle su cui scorre il fiume c’è anche una piccola moschea. Sull’uscio del negozio siedono due giovani talebani dall’aria rintontita. Fuori, due uomini. «Ti piacciono i Talebani?», chiedono indicando dentro con lo sguardo. Prendiamo tempo. Uno dei due tira su la manica. Mostra una ferita sull’avambraccio. «Facevo il soldato. Ora eccoci qui».

IL QUI E ORA di Maria Grazia Cutuli, Haidari, Burton e Fuentes era il primo Emirato che veniva giù, i Talebani dispersi, incarogniti, dati per sconfitti. Venti anni esatti dopo è di segno opposto: chi scappava è tornato al potere. È tempo di secondo Emirato, ma molti vogliono andar via. «Sei italiano? Ci porti via con te? Qui non c’è più niente. Soldi non ce ne sono. I Talebani non ce li hanno. Come si fa?». E poi la la stoccatina al presidente fuggitivo. «E Ghani dove sta, lo sai dove sta?».

Fosse solo sua la colpa, sarebbe tutto più semplice. Venti anni di guerra al terrore. Di retorica umanitaria, militaresca, diplomatica. Venti anni e decine di migliaia di civili morti per edificare uno Stato di carta pesta, senza sovranità: il 43 per cento del Prodotto interno lordo e il 75 per cento della spesa pubblica in mano ai donatori stranieri.

I Talebani a metà agosto hanno scelto la spallata militare, facendo saltare il piano negoziale e i rapporti con chi alimentava lo Stato. Come spararsi sui piedi. Recuperare il rapporto, specie con i donatori euroatlantici, è difficile. Il sostegno dei Paesi della regione vale più a parole che nei fatti. I Talebani si aspettavano di più. L’Afghanistan va verso un dirupo economico e sociale. Nessuno sa come impedirlo.

È VENERDÌ DI FESTA e c’è chi fa una gita. Superata Sorobi, il cui bazar è meno affollato del solito e senza i melograni che riempiranno a breve le bancarelle, sul greto del fiume, perlopiù asciutto in questo periodo, gruppi di persone siedono in tondo e bevono tè. Più in là alcuni bambini portano al pascolo il bestiame. Qui non c’è la siccità che c’è al sud, lungo le province occidentali e nel nord-ovest.

Poi si arriva a Daroonta, alle porte di Jalalabad. I controlli dei Talebani sono poco scrupolosi. Qualche centinaio di metri più avanti, un segno del nuovo corso. Il cancello dell’università statale, la più grande e importante di quest’area del Paese, è sbarrato. «Le apriremo presto», rassicura Zabihullah Mujahed.