Da oggi alla fine di agosto, in cultura potrete trovare una serie di pagine dedicate alle «stanze dei libri». Le biblioteche hanno molto sofferto nella pandemia e ancora adesso sono spazi tristemente negati. Noi riapriamo le porte di quelle stanze serrate, dalle «salette» sperdute su isole scozzesi e assaltate dai vichinghi ai magazzini polverosi inzeppati di tesori dimenticati, dagli archivi persi nelle sabbie del deserto ai depositi della raffinata arte tipografica giapponese, fino alle librerie galleggianti di cui si favoleggia nella letteratura. Ci sono biblioteche che custodiscono il teschio di Swift e altre in cui l’immaginario prende il posto della realtà. A volte, leggere fra gli scaffali con grandi occhiali neri da sole è meglio che andare da Tiffany. Ci sono, poi, biblioteche ambiziosissime che hanno bruciato il sapere del mondo, altre che sono scrigni viventi di memoria storica. Alcune godono di ottima salute perché camminano sulle gambe di storie personali, gelosie e manie: dal grande nord ai sottoscala americani, dai roghi mitici di Alessandria ai migranti spagnoli arrivati a New York, ossessionati dai libri rari. Passando anche per Parma, in compagnia del signor Bodoni, con una sosta nella casa di Puskin. Buona lettura! 

 

 

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Nella parte sudoccidentale di Dublino esiste un quartiere un tempo proletario chiamato le Liberties. Il nome proviene dal fatto che, sin dalle invasioni anglo-normanne del XII secolo, pur essendo annesso alla città, manteneva una sua giurisdizione. È qui che si erge l’imponente cattedrale protestante di San Patrick, dal cui pulpito Jonathan Swift aveva proclamato i suoi sermoni corrosivi. Dallo stesso pulpito aveva predicato il suo successore, Gabriel Jacques Maturin, nonno di quel Charles Robert Maturin autore di uno dei romanzi gotici più terrificanti di sempre: Melmoth l’errante. Fu introdotto da Giorgio Manganelli, ed è ora disponibile integralmente per le cure del poeta e scrittore Flavio Santi. È un romanzo che Honoré de Balzac considerava importante quanto il Faust di Goethe, e di certo è altrettanto ossessionante.

IN UNO DEI SUOI DI SERMONI, Charles Robert Maturin aveva predicato: «La vita è ricolma di morte; i passi dei vivi su questa terra non possono non disturbare le ceneri dei defunti: camminiamo sopra i nostri antenati, il globo stesso è un unico vasto cimitero». Maturin e Swift frequentarono un luogo fondamentale per la loro carriera di scrittori, un edificio adiacente a quella stessa cattedrale di San Patrizio che dell’autore di Gulliver, ma anche della sua compagna Stella – e persino del servitore di Swift McGee – ospita i resti. È la prima biblioteca pubblica d’Irlanda, istituita dall’arcivescovo di Dublino Narcissus Marsh nel 1707 per sopperire alla mancanza di luoghi in cui anche i non accademici potessero essere esposti al sapere.  La Marsh’s library è uno dei luoghi più affascinanti in cui studiare, e nei suoi tre secoli di storia vide la presenza di importantissimi scrittori irlandesi. I locali originari in legno sono suddivisi in scomparti assicurati da grate, e i libri rari sono tenuti serrati con catene e lucchetti. In uno di questi scomparti vi è la riproduzione in gesso del teschio di Stella, mentre quella del cranio del suo Jonathan si trova nella cattedrale. Dopo la riesumazione, durante lavori di ristrutturazione dell’edificio, il teschio di Swift passò per più mani, e finì persino in quelle di Sir William Wilde, padre di Oscar e famoso medico, il quale ne scrisse un attento esame.

PER UNO STRANO INCROCIO di destini, Sir William Wilde sposò la nipote di Maturin, la focosa rivoluzionaria Jane «Speranza»; e il figlio dei due, Oscar Fingal O’Flaherty Wills (Wilde), quando cadde in disgrazia al punto di non poter più usare in pubblico il suo nome, elesse a pseudonimo proprio Melmoth, il figlio delle ossessioni e della penna di Charles Robert Maturin.
Ma dov’era nato, davvero, questo eterno errante dalle vicende sinistre di cui ci racconta il reverendo? Proprio alla Marsh’s library, accanto alla cattedrale in cui predicava suo nonno. La Marsh ospita, infatti, nel suo preziosissimo catalogo testi sulle superstizioni popolari, sul folklore, sulla streghe e sulle persecuzioni, oltre ovviamente a una vastissima letteratura teologica e patristica. Non stupisce che la frequentasse anche un altro famoso dublinese padre di mostri, Bram Stoker, l’autore di Dracula. Nel 1866 vi si recò a più riprese, e gli studiosi hanno dimostrato come tra le sue letture vi fossero anche opere sulla Transilvania, sulla figura storica di Vlad l’impalatore, e sui vampiri.
Siamo però molto lontani dalla scrittura del suo capolavoro, del 1897; e non c’è un nesso di causa-effetto troppo vincolante tra quelle letture arcane di trent’anni prima e la creazione dell’archetipo di tutti i vampiri moderni. Anche perché, come ben si sa, anche altre fonti d’ispirazione ebbe Stoker a Dublino, tra cui la cripta della chiesa di St Michan, sull’altra sponda della Liffey, in cui si dice andasse a vedere le mummie che tuttora vi sono conservate.

Il teschio di Swift
PURE LA MARSH aveva una sua mummia, Maurice: una mummia egizia trafugata e trasportata nella biblioteca in un periodo imprecisato, ma poi riscoperta nell’Ottocento, e ora traslata nei locali di quel Trinity College di cui proprio Narcissus Marsh fu uno dei rettori più importanti. Attorno al Trinity gravitava, infatti, fino ai primi decenni del ventesimo secolo tutta l’intellighenzia protestante; inclusi Wilde e Stoker che furono, non molti lo sanno, persino rivali in amore; e incluso il fratello maggiore di Stoker, Sir Thornley, anch’egli, come il padre di Wilde, famoso medico, e anch’egli frequentatore della Marsh.
In una delle sue visite si trovò fianco a fianco di uno degli autori più importanti di sempre, il quale poi a sua volta lo «traslò» persino nel suo capolavoro. Parliamo di James Joyce. La storia è complessa. Siamo nell’ottobre del 1902. Joyce, ventenne, ha incontrato qualche giorno prima W.B. Yeats, il futuro premio Nobel per la letteratura. Era un periodo in cui si interessava di misticismo, e Yeats gli consiglia di recarsi alla Marsh a consultare un’edizione del cinquecento delle (pseudo) profezie di Gioacchino da Fiore. Il giovane Joyce aveva colpito l’immaginario di Yeats perché gli aveva appena confessato di non ammirare nulla della sua opera, eccezion fatta per alcune storie esoteriche che invece conosceva a memoria: Le tavole della legge e L’adorazione dei magi. In queste Yeats parla tra l’altro dell’Expositio in Apocalypsim di Gioacchino, presente alla Marsh in un’edizione veneziana del 1527.

YEATS, IMPRESSIONATO da questa confessione ardita, decise persino di ripubblicarle quelle storie, e di includere anche una breve premessa in cui spiegava che, fosse stato per lui non avrebbe mai scelto di ristamparle; ma «l’altro giorno ho incontrato un giovane a Dublino che le ammirava profondamente, a differenza di tutto il resto che ho scritto».
Joyce segue il consiglio di Yeats e si reca alla Marsh per due giorni consecutivi, e lì compulsa un libro di profezie apocalittiche in latino con traduzione italiana, a lungo attribuito all’abate di Fiore, e presente in una rarissima edizione veneziana del 1589: Vaticinia, sive Prophetiae Abbatis Joachimi & Anselmi Episcopi Marsicani. Dal primo vaticinio Joyce cita, modificandone abilmente il testo, nel terzo episodio dell’Ulisse, il più criptico; ed è sempre lì che ci imbattiamo poi in questa reminiscenza criptica e sconvolgente: «Case in rovina, la mia, la sua e tutte… Vieni via da loro, Stephen. La bellezza non è lì. E neppure nella baia stagnante della Marsh’s library dove leggesti le profezie sbiadite dell’abate Gioacchino».

IL GIOCO DI PAROLE, e di pensiero, su cui si sofferma Joyce è quello tra il cognome Marsh e il sostantivo marsh, «palude», e quindi per estensione, luogo che contiene pensieri acquitrinosi, stagnanti. D’altro canto, era stato lo stesso scrittore, in un altro luogo del libro, a parlare di coffined thoughts, ovvero di «pensieri incassati in bare».
Ecco, durante la seconda visita di Joyce in questa biblioteca lugubre ma meravigliosa, il 23 ottobre del 1902, al suo fianco c’era Sir Thorley, il fratello di Bram, la cui ombra compare nel quindicesimo episodio dell’Ulisse, «Circe», l’episodio dei fantasmi. Un caso? Stoker era l’ispettore per l’Irlanda per l’Anatomy and Vivisection Act. La vivisezione uccide, si sa, ma nei libri di Joyce i fantasmi dei morti tornano sempre. Come tornano anche nella Marsh. Si racconta persino che lo spettro dell’arcivescovo Narcissus torni di tanto in tanto in biblioteca, invano, per cercare una lettera: un appunto che la nipote preferita, Grace, gli avrebbe lasciato in uno degli innumerevoli volumi, per spiegargli il perché della sua fuga con un capitano di mare, avvenuta contro la volontà dello zio. Probabilmente la lettera è ancora sepolta tra le pagine di qualche vecchio tomo.
La biblioteca risuona poi ovviamente del fantasma di Swift, che ricompare spettralmente nel meraviglioso dramma di Yeats Words Upon the Window Pane; e nella Marsh risuona dalle pagine di volumi antichi da lui steso annotati, spesso in forma di invettiva per la stoltezza degli autori che andava via via incontrando.
Andare alla Marsh è un’avventura che vale la pena intraprendere. Le visite sono libere, ma la consultazione è soggetta ad autorizzazione, per la preziosità del materiale bibliografico conservato. Nel cuore della vecchia Dublino di Swift, Maturin, Wilde, Stoker, Yeats e Joyce, e a qualche isolato dalla moderna Dublin di Google e di Facebook – che proprio nella capitale irlandese hanno scelto di collocare i loro modernissimi quartier generali europei – la Marsh’s library si offre come vestigia di un passato oscuro e remoto; ma anche come monito e vaticinio per il futuro: un futuro che poggia, s’è già detto, sempre sulle ceneri degli antenati.