Elon Musk starebbe pensando di ritirare la sua piattaforma – X, l’ex Twitter – dall’Unione europea. Lo ha rivelato a Business Insider una fonte dentro la piattaforma social. Con un post su X, Musk ha prontamente smentito. Ma si tratta comunque del nuovo capitolo di una crisi che cova ormai da mesi fra Ue e non solo X, ma tutti i giganti social della Silicon Valley – e che era destinata a esplodere dopo l’approvazione, ad agosto, del Digital Services Act (Dsa), il regolamento di cui si è dotata la Ue per combattere la circolazione online di disinformazione, contenuti illegali, discorsi d’odio.

A FARLA deflagrare (forse) definitivamente, è stata però la sequela di lettere inviate dal commissario Thierry Breton ai Ceo delle principali piattaforme all’indomani dell’attacco di Hamas in territorio isrealiano. A ognuno di loro il medesimo monito: il Dsa li impegna alla trasparenza e all’impegno sulla moderazione dei contenuti e l’impiego degli algoritmi di raccomandazione, pena sanzioni fino al 6% degli introiti globali della compagnia. La più minacciosa delle missive proprio quella inviata a Musk – che del rifiuto della moderazione ha fatto la nuova bandiera della piattaforma. E della monetizzazione delle spunte blu: gli account non più verificati ma comprati per 8 dollari al mese, che consentono tra le altre cose una promozione dei propri contenuti da parte dell’algoritmo. Twitter, che era stato il social per seguire le crisi in tempo reale dalle primavere arabe del 2011, si è tramutato invece con lo scoppio di questa guerra nel peggior ricettacolo di fake, propaganda e odio.

L’ACCELERAZIONE di questi contenuti si era già vista con l’invasione russa dell’Ucraina: «C’è ora uno schema ripetuto – ha detto ad Ap il docente di psicologia della Cornell University, specializzato in disinformazione, Gordon Pennycook – ma ogni volta che lo vediamo manifestarsi c’è un’improvvisa ondata di preoccupazione che poi si affievolisce». Servono invece «strumenti che consentano di costruire una resistenza alla disinformazione prima del verificarsi di un evento come questo». Che ha, anche nella fog of war di cui è intriso internet che abbiamo imparato a conoscere, le sue specificità. A partire proprio dal ruolo di X: allo scoppio della crisi, Musk ha esortato a seguire non i media ufficiali (ora ulteriormente penalizzati sulla piattaforma dalla rimozione dei titoli degli articoli) ma i “citizen journalist” di X – che, ça va sans dire, pagano 8 euro al mese a Elon Musk. In un post poi rimosso, aveva raccomandato due profili per «seguire gli eventi in tempo reale» che, come riporta The Intercept, avevano fatto post rispettivamente antisemiti e islamofobici. Nei primi giorni del conflitto anche i video dell’attacco prodotti da Hamas erano circolati largamente attraverso account premium, se non addirittura profili legati allo stesso gruppo terroristico: secondo un’indagine di Tech Transparency Project uno di questi sarebbe direttamente collegato alle brigate Al-Qassam. Contenuti rigorosamente monetizzati con un’altra “innovazione” di Musk: le pubblicità nella sezione dei commenti.

IN GENERALE, su tutti i social, i contenuti antisemiti e islamofobici si sono moltiplicati esponenzialmente dal 7 ottobre – sulla piattaforma dell’estrema destra culla di QAnon, 4chan, il Time segnala addirittura un incremento del 479%. 7amleh, associazione israeliana per i diritti digitali, ha documentato 103.000 casi, raccolti fra il 7 e il 18 ottobre, di post in ebraico contenenti incitamenti all’odio anti-palestinese sulle piattaforme social (in testa ancora una volta X: 63%).
Il risvolto della medaglia è stato un silenziamento delle voci pacifiste, oltre che di attivisti e giornalisti palestinesi, da parte delle piattaforme che anziché mettere in discussione il proprio mortifero modello di business hanno preferito evitare problemi. Su Instagram e Tik Tok sono decine i casi documentati da Intercept di censure, rimozioni di account e shadowbanning per chi anche solo impiega la parola Palestina.

Altra specificità di questo conflitto, come rileva l’analista John Hultquist con il Washington Post, è che a differenza della guerra in Ucraina «il maggior numero di contenuti di disinformazione» non viene dall’estero, ma nasce ed è «diretta verso l’interno» di Israele e Palestina. Come un audio WhatsApp in cui si sosteneva che i cittadini di Israele sarebbero rimasti per giorni senza possibilità di comprare cibo e accedere a internet, che ha portato a un assalto ai supermercati e ai bancomat.

INFINE, ancora una volta, ci sono i contenuti che cercano di dare una spallata definitiva all’idea che possa esserci un racconto se non oggettivo almeno responsabile della realtà come quello fatto da giornalisti e giornaliste – o una realtà tout court. È il caso del finto audio – smascherato da Reuters – sovrapposto a un video di giornalisti della Cnn che cercano riparo durante un allarme aereo in Israele, in cui si fa credere che il pericolo sia inesistente e una regia dica loro come comportarsi.