Si autodefinisce come un «liberale internazionalista», ma al termine della lettura del suo Patrie. Una storia personale dell’Europa (traduzione di Francesco Zago, Garzanti, pp. 406, euro 25), un affascinante affresco del Vecchio continente intessuto a partire dai ricordi di una vita e, viene da pensare, da migliaia di righe appuntate su vecchi taccuini, il profilo di Timothy Garton Ash emerge come quello di un inguaribile umanista, innamorato del modo in cui si è pronti a mettere tutto in discussione in nome della libertà. Nato a Londra nel 1955, attualmente docente di studi europei a Oxford, storico e saggista, autore di importanti studi sulla fine del blocco sovietico, le guerre dei Balcani e le relazioni tra Stati Uniti ed Europa, Garton Ash è stato un oppositore irriducibile della Brexit.

Lo storico britannico Timothy Garton Ash

«Patrie» racconta il suo itinerario di europeista convinto dalla caduta del Muro di Berlino al referendum che ha sancito l’uscita del suo Paese dalla Ue: un bilancio piuttosto negativo?
È la vera tragedia che sta finendo per caratterizzare l’epoca che nel libro ho definito come «il dopo Muro», pensando all’89 e a Berlino, e che invece si sta trasformando in un periodo nel quale nuovi muri vengono eretti. La prospettiva forse più significativa della nuova Europa, vale a dire l’idea che si potessero abbattere le barriere come anche i confini tra gli Stati, sta venendo messa in dubbio ogni giorno di più. Dal 2015 si è cominciato a costruire nuovi muri. Da quello, non soltanto simbolico, della Brexit, a quelli di cemento e filo spinato sorti tra Ungheria e Bielorussia, tra Spagna e Marocco. Per non parlare di quello invisibile che attraversa il Mediterraneo per impedire ai migranti di arrivare. La Cortina di ferro tagliava in due l’Europa, ora è tutto intorno ad essa che si sta cercando di costruire un muro.

Esempi che sembrano dimostrare come l’idea stessa di un’Europa unita sia in crisi. Lei scrive che «Bruxelles non canta», nel senso che l’europeismo non scalda più i cuori dei cittadini. Manca un appeal emotivo, un «mito» fondatore o sono piuttosto le politiche adottate dalla Ue, come il duro impatto delle scelte improntate al neoliberismo nelle società dell’Est, ad aver reso via via meno allettante questa prospettiva?
Certo, l’impatto delle scelte operate dalla Ue sui cittadini dei differenti Paesi va tenuto presente, ma credo che ci sia un altro aspetto della vicenda su cui ci si deve soffermare. La politica è ovviamente anche «teatro», deve parlare alle emozioni e in qualche modo affascinare. L’Unione europea possiede solo un po’ di questi elementi: abbiamo la bandiera con le stelle gialle su fondo blu e l’inno, ma sono in pochi ad emozionarsi per questo. Ma soprattutto, quello che manca a quest’Europa sono dei grandi attori che calchino la scena della politica e che siano in grado di parlare al cuore oltre che alla mente dei cittadini. Questi, al di là della bontà o meno delle loro scelte, esistono talvolta sul piano nazionale, nei diversi Paesi, e spesso non hanno alcuna voglia di vedersi rubare la scena da chi parla a nome di Bruxelles e della Ue. Al momento possiamo solo augurarci che le prossime elezioni europee ci consegnino delle figure all’altezza della sfida.

Nel libro riflette su un apparente paradosso: la Gran Bretagna ha rotto con Bruxelles pur restando una democrazia, mentre l’Ungheria è ancora nella Ue «ma non è più una democrazia».
Per una persona come me che è cresciuta nel mito della primavera democratica dei Paesi dell’Est che si sono liberati dal giogo sovietico, è quasi incredibile vedere che un personaggio come Viktor Orbán ha potuto demolire dall’interno la democrazia del suo Paese continuando a godere degli ingenti finanziamenti e del sostegno della Ue. Credo sia una delle grandi questioni che l’Europa deve affrontare. Anche perché non c’è solo il caso dell’Ungheria: ad esempio, tra due settimane si vota in Polonia dove potrebbe rafforzarsi una deriva simile a quella già in atto a Budapest.

Rispetto alla situazione dei Paesi dell’Est, dalle sue analisi sembra emergere come nel resto del continente non si sia capito fino in fondo l’effetto dell’invasione russa dell’Ucraina nelle società della ex Cortina di ferro…
Immagini per un attimo di essere un ungherese: probabilmente ricorderebbe ancora, o lo farebbero i suoi familiari, l’invasione sovietica del 1956. Allo stesso modo, se fosse cecoslovacco, non avrebbe dimenticato l’ingresso dei carri armati russi a Praga nel 1968. Se invece fosse polacco potrebbe pensare ancora alla legge marziale imposta nel Paese nel 1981. E lo stesso si potrebbe dire di un cittadino dei Paesi baltici. Però dobbiamo ricordarci che stiamo attraversando una fase davvero complicata e dagli esiti talvolta contraddittori, basti pensare che in Slovacchia, un Paese che è appena andato al voto e che confina con l’Ucraina, secondo i sondaggi oltre il 50% della popolazione ritiene che la guerra in corso non sia responsabilità di Putin ma di Kiev.

Lei definisce la Russia di Putin come una «grande potenza revisionista» che cerca una sorta di revanche sulla storia. L’Europa non lo aveva capito e sarebbe dovuta intervenire con più efficacia per impedire la guerra?
Ho incontrato per la prima volta Vladimir Putin nel 1994 quando non era che il vicesindaco di San Pietroburgo e già all’epoca mi parlò di quelli che considerava «territori che hanno sempre fatto parte della Russia» ma che erano stati separati dal Paese, citò tra l’altro proprio il caso della Crimea, e dei «25 milioni di russi che vivono fuori dai confini della Federazione»: una vicenda, mi disse, cui si sarebbe dovuto porre rimedio. Questo per dire che l’atteggiamento revanscista di Mosca risale a molti anni fa. Perciò, è evidente che l’Europa avrebbe dovuto reagire subito in modo più netto – specie dopo l’intervento di Mosca in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014 -, varando delle sanzioni più severe e cercando di intercettare il denaro sporco che dalla Russia affluisce in molte borse europee, a partire da quella di Londra, e diminuendo la dipendenza energetica da Putin. Questo era il segnale che andava dato all’epoca. E forse se l’Europa lo avesse fatto non ci troveremmo alle prese con il più grande conflitto bellico che si sia svolto sul territorio europeo dal 1945.

La sua «storia personale dell’Europa» non è scandita solo dagli incontri con i maggiori politici degli ultimi decenni, ma anche da una riflessione sul ruolo volto dagli intellettuali. A proposito della crisi odierna lei cita ad esempio la nuova edizione di un celebre libro di Stefan Zweig («Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo») che di fronte all’ascesa del nazismo rievocava la tollerante società viennese degli anni dell’Impero asburgico. All’Europa di oggi manca la voce degli intellettuali?
Credo ci sia una formula che voi in Italia conoscete particolarmente bene, e che risale ad Antonio Gramsci, che mette a confronto il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Ecco, a mio modo di vedere gli intellettuali oggi non possono che illustrare le grandi sfide che abbiamo di fronte, non devono nascondere in alcun modo i problemi con cui dobbiamo misurarci, si tratti della crisi ambientale, della guerra, dei diritti negati o delle nuove e vecchie dittature che abbiamo di fronte. Forse, pensando alla crisi che attraversa l’Europa, ciò che manca davvero sono più voci che si concentrano anche sul secondo aspetto della questione: cercando di immaginare quali possano essere le possibili vie d’uscita. Tra le figure che ho incontrato in questi anni e a cui faccio riferimento nel libro c’era ad esempio un grande intellettuale, oltreché politico, Václav Havel. In un’epoca in cui nessuno riusciva neppure ad immaginare che la Cecoslovacchia totalitaria avrebbe intrapreso il cammino verso la democrazia, Havel si è invece impegnato in questa direzione ed è riuscito a raggiungere questo obiettivo. Credo che lo abbia fatto proprio perché ad una disamina senza reticenze della situazione in cui si muoveva, ha saputo aggiungere una «visione» lucida quanto alle potenzialità dell’avvenire.

Oggi si ricordano coloro che sono morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, saremo in grado di abbattere anche quella che lei definisce come la «nuova cortina di ferro» eretta per fermare i migranti?
Quando, nell’enclave spagnola di Ceuta, in Marocco, mi sono trovato di fronte al «muro» ho subito uno shock: una prima barriera alta più di dieci metri seguita da una seconda, filo spinato ovunque, sensori, telecamere… qualcosa di molto simile a quanto era stato costruito per dividere in due Berlino a partire dal 1961. Ma, ovviamente, ancor più sinistra è la «cortina di ferro» invisibile che cerca di chiudere il Mediterraneo condannando di fatto a morte quanti cercano di arrivare da noi. E, ad edificare questa barriera invisibile contribuiscono prima di tutto quelle retoriche populiste che manipolano le emozioni delle persone, proponendo una narrazione che parla di «invasione» e del rischio che la nostra civiltà scompaia a causa degli immigrati. Purtroppo sono tasti molto sensibili per una parte dell’opinione pubblica europea e non a caso quanti scelgono di agitare tali temi sembrano godere di una crescente popolarità in gran parte dei nostri Paesi. Perciò, è prima di tutto di questo tipo di discorsi che evocano l’idea che orde di barbari stiano per lanciarsi alla conquista dell’Europa, che dobbiamo liberarci per cominciare a smontare, pezzo dopo pezzo questa pericolosa barriera. È da qui che deve ripartire l’Europa se vuole avere un futuro.