«Pochi istanti prima di morire Andy ha scattato delle foto, in alcune di queste ci sono anch’io, nonostante ci stessero bombardando e avevamo tutti paura lui ha continuato a documentare ciò che accadeva. Quelle foto sono il suo testamento, il testamento di un reporter che è morto facendo ciò che amava e in cui credeva». È il racconto di William Roguelon, il fotografo francese che era con Andy Rocchelli, Andrey Mironov e due civili ucraini il 24 maggio del 2014, quando Rocchelli e Mironov sono rimasti caduti sotto il fuoco dei militari che si stavano scontrando a Slovjansk, nell’est dell’Ucraina. Ora un documentario realizzato da Giuseppe Borello e Andrea Sceresini con la collaborazione di Tatsiana Khamliuk, intitolato «La disciplina del silenzio. Inchiesta sulla morte di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov», rivela attraverso testimonianze inedite chi fu a dare l’ordine di sparare ai giornalisti inermi quel tragico giorno di 10 anni fa.

IL CONTESTO era quello della guerra civile scoppiata nel 2014 in seguito alle proteste di Piazza Maidan nella parte orientale dell’Ucraina tra i separatisti filo-russi e le truppe regolari di Kiev. Andy Rocchelli, fotografo italiano di 30 anni che aveva già lavorato in diversi contesti di crisi, e Andrey Mironov, giornalista attivista e dissidente russo, avevano deciso di recarsi in Donbass per documentare le sofferenze dei civili ucraini che si trovavano in mezzo agli scontri tra i due eserciti. Slovjansk in quelle settimane era controllata dai separatisti mentre gli uomini della Guardia Nazionale e dell’esercito regolare ucraino erano asserragliati sul monte Karachun, nei pressi della fabbrica di ceramica italiana «Zeus». Andy, Andrey e il collega francese Roguelon, dopo aver chiamato diversi contatti per sapere se la zona intorno alla Zeus fosse agibile, sono saliti su un taxi e si sono recati sul posto. L’auto del tassista viene parcheggiata nei pressi di un incrocio e i 4 si incamminano verso il passaggio a livello che segnava la linea di demarcazione tra i due schieramenti grazie a dei vagoni merci che i militari avevano bloccato sulle rotaie. Subito vengono raggiunti da alcuni colpi di armi automatiche di piccolo calibro e decidono di rifugiarsi in un fosso lì vicino. «Ricordo che si trattava di raffiche continue, arrivavano in serie di 4 colpi ciascuna, a distanza di pochi secondi un colpo dall’altro» racconta Roguelon che viene ferito da delle schegge, «una grande quanto una moneta da due euro», alle cosce. «La scheggia si è fermata a due millimetri dall’aorta femorale, potevo morire quel giorno». Furono meno fortunati Rocchelli e Mironov che invece furono raggiunti da un colpo di grosso calibro che li uccisero immediatamente.

Locandinadel documentario 
di Giuseppe Borello e Andrea Sceresini su Andy Rocchelli
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LA PROCURA di Milano aprì un’inchiesta che portò in prima istanza alla condanna del 27enne italo-ucraino Vitaly Markiv in un clima bollente, nel quale per mesi in aula si presentarono puntualmente una claque di ucraini e, addirittura, politici del governo di Kiev. Markiv fu condannato a 24 anni e poi assolto dalla Corte d’Appello perché, come spiega il padre di Rocchelli, Rino, che sembra conoscere quasi a memoria la sentenza, «nelle pagine del compendio probatorio dove si dice che i 9 testimoni ucraini (tutti della difesa, ndr) sono stati sentiti in maniera non conforme alle leggi italiane, perché potevano essere correi e dovevano esserne informati prima». Dunque l’intero interrogatorio è stato invalidato. Alcuni di questi 9 avevano testimoniato presso i Ros di Milano per un giorno intero, «ma al processo è stato detto che soltanto quanto raccolto durante il procedimento poteva avere valore e le testimonianze raccolte prima erano ormai superate». Il 9 dicembre 2021 Markiv viene assolto dalla Cassazione e torna in patria da eroe.

«NELLA SENTENZA del tribunale di Milano» spiega Sceresini, «c’è però scritto che i colpi che uccisero Rocchelli e Mironov furono chiaramente lanciati dall’esercito ucraino». «Per un ‘vizio di forma’ non potevamo fermarci» gli fa eco Borello. Per questo i due giornalisti hanno continuato le ricerche, che sono durate mesi, e sono riusciti finalmente a identificare dei disertori che facevano parte della 95° brigata aviotrasportata dell’esercito ucraino, che durante il maggio del 2014 aveva il controllo del monte Karachun e comandava anche gli uomini della Guardia Nazionale presenti nell’area, in posizione un più arretrata.

TRA OMERTÀ dei soldati e difficoltà di ogni genere i reporter hanno trovato un membro della 95° disposto a parlare. A quel punto il quadro ha iniziato ad assumere contorni meno sfumati. Tutti i contatti portavano alla stessa conclusione: a uccidere i due giornalisti fu un’arma specifica, una sorta di mortaio che spara raffiche continuative di 4 colpi (come testimoniato anche da Roguelon) chiamato Vasilek. E questo armamento era in dotazione solo alle truppe regolari dell’esercito ucraino. Quindi la Guardia Nazionale veniva scagionata, ma la responsabilità a quel punto ricadeva sull’esercito e sul capo della 95° a Karachun: Mikhailo Zabrodskyi. Quest’ultimo, che per sua stessa ammissione in un’intervista realizzata per il documentario era responsabile di tutte le truppe presenti a Karachun, dice di non ricordare dove fosse quel giorno e che il colpo poteva «venire da qualsiasi parte». Ma un testimone chiave che Sceresini e Borello hanno rintracciato racconta che fu proprio Zabrodskyi a ordinare di sparare sull’auto del tassista ferma all’incrocio e poi a ordinare «fuoco a volontà» sui giornalisti inermi. In seguito Zabrodskyi è stato proclamato eroe dell’Ucraina, dal 2019 siede nel Parlamento di Kiev, è stato addirittura membro del Gruppo per le relazioni interparlamentari con la Repubblica italiana, prima di tornare nell’esercito dopo l’invasione russa. «Il fatto è che i tribunali ucraini non hanno voluto fare giustizia» come spiega un’altra fonte anonima del tribunale di Slovjansk.

CIONONOSTANTE la famiglia di Andy Rocchelli non si è mai arresa e continua a lottare. Come spiega la mamma del fotoreporter, Elisa Signori, «siamo convinti che sia un dovere sociale e poi perché la storia di Andy è una di una casistica enorme, basta vedere gli oltre 100 giornalisti uccisi a Gaza. Finché non si fa giustizia tutti saranno convinti che si possono uccidere giornalista impunemente». E per questo, per mezzo dell’avvocata Laura Guercio, presente in sala, hanno deciso di presentare ricorso alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. «Una prima risposta già c’è stata», spiega l’avvocata, «siamo fiduciosi e andiamo avanti per far sì che alla verità storica ricostruita da questo documentario possa far seguito anche una verità giuridica».