Venerdì pomeriggio. Avenida Revolución è la strada simbolo del turismo transfrontaliero di Tijuana, città messicana al confine con gli Usa, e si prepara all’invasione di americani attesa ogni fine settimana. I tavolini dei bar sono pronti a occupare i gringos sui marciapiedi, mentre la strada è chiusa già dalle 13, trasformata in una lunghissima isola pedonale.

Tijuana prova a tornare alla normalità dopo il week-end precedente, in cui la città era precipitata in una sorta di lockdown. Una sera di venerdì come questa, per la città di erano accesi a macchia d’olio una ventina di attacchi incendiari, bande che senza preavviso né preciso motivo davano fuoco a automobili, taxi, colectivos – quei minibus privati e stipati all’inverosimile che costituiscono la cosa più prossima a una rete di trasporto pubblico in Messico. Il risultato è stata la paura nelle strade, fuga nelle proprie case, ristoranti e negozi sbarrati.

«UNA COSA SIMILE, a Tijuana non si era mai vista» confessa un autista di Uber. «Noi esercenti abbiamo deciso di chiudere non appena abbiamo visto la polizia girare per la zona e quando sono giunte le prime notizie di quello che è sembrato da subito un attacco alla città» ci spiega un ragazzo che lavora in una cafeteria di Avenida Revolución. Poi, il sabato mattina, «è arrivata la decisione delle autorità di chiudere i luoghi di ritrovo per tutto il fine settimana». Possibili obiettivi, hanno detto. Una città di quasi due milioni di abitanti cerrada por narco.

Una settimana dopo, il presidente Andrés Manuel López Obrador ha da poco terminato la conferenza stampa che ha chiuso la riunione del Gabinete de seguridad nella Zona Militare 2 della città. L’ondata di violenza che ha colpito Tijuana e altri municipi della Bassa California – Tecate, Mexicali, Ensenada e Rosarito – ha registrato un totale di 46 mezzi bruciati. Il presidente Obrador promette alla governatrice Marina del Pilar Ávila «che non sarà lasciata sola». La decisione di inviare 650 tra paracadutisti e forze speciali dell’esercito e della marina in Bassa California. E con questi, i militari presenti nello stato diventano oltre quattromila.

OBRADOR HA PARLATO di «destabilizzazione», ha accusato i media di «cavalcare la propaganda di terrore dei gruppi criminali», ha spiegato che «lo stato c’è». E ha criticato il governo degli Stati Uniti che ha diramato un’allerta sicurezza per i propri concittadini, un insolito avviso a trovare rifugio o, ancora meglio, a infilare l’uscita e tornare a San Diego, la città gemella-ma-diversa dall’altra parte del confine. «Noi non abbiamo mai avvertito i messicani di quanto siano pericolosi gli Usa – è sbottato Obrador – e lì ci sono sparatorie ogni giorno». Del resto, negli Usa ci sono più armi che abitanti. Tra San Diego e Tijuana vivono oltre 5 milioni di persone. Come Sydney, San Pietroburgo, Barcellona. Ma vivono in due pianeti diversi.

PER ERNESTO ESLAVA, giornalista di Semanario Zeta, che da anni si occupa di raccontare Tijuana «denunciare il tentativo di destabilizzazione o puntare il dito contro la stampa è un grave errore politico. I gruppi criminali non hanno nessun interesse a destabilizzare una città come Tijuana, snodo del traffico di armi, droga e persone: gli attacchi, che superficialmente hanno la firma del Cártel de Jalisco Nueva Generación ma i cui presunti responsabili sono da ricercare anche nel Cártel de Sinaloa e in quello di Tijuana, sono da leggere in un’altra ottica: sono un messaggio mandato ai nuovi vertici politici statali e municipali, che si sono insediati da meno di un anno, su chi comanda veramente qui.

È così che iniziano le “trattative” per cercare un nuovo accordo». Inoltre, sottolinea Eslava, gli incendi sono stati sufficienti «per gettare Tijuana nel terrore, e questo ci fa capire quanto la popolazione abbia ormai normalizzato la violenza, i morti nelle strade». Il riferimento è al numero annuale degli omicidi in Baja California: «In media, duemila all’anno». Ma «questi, ormai, non fanno notizia. La popolazione è convinta che i gruppi criminali si stiano uccidendo a vicenda in uno scontro che coinvolge solo i cartelli. Ma non è così».

TRA TIJUANA e Ciudad Juarez ci sono due ore di volo o 12 ore di macchina, è un’altra città simbolo del confine tra Messico e Usa. Nello stesso periodo è stata colpita dal gruppo criminale Los Mexicles: l’attacco è partito nel carcere ed è dilagato per le strade della città, con sparatorie ed esercizi commerciali incendiati.

Il bilancio è stato di undici vittime, due detenuti e nove cittadini: passanti, lavoratori di negozi e supermercati, dipendenti di un’emittente radiofonica che stavano registrando uno spot all’esterno di una pizzeria. «Per dieci ore qui è stato il panico» ci racconta un portiere d’albergo che quel pomeriggio, non appena hanno iniziato a diffondersi le notizie dei primi omicidi, ha chiamato a casa e, dopo essersi rassicurato che nessuno della sua famiglia fosse in giro, ha comunicato alla moglie che a fine turno sarebbe rimasto a dormire nel suo hotel.

SABATO POMERIGGIO. Avenida Benito Juárez, la via che dal centro cittadino di Ciudad Juarez che porta alla frontiera Paso del Norte, è quasi deserta, complice anche la pioggia, evento più che raro da queste parti, in pieno deserto. I negozi aperti sono pochi ma l’assalto del giovedì nero, come è stato ribattezzato dalla stampa locale, non c’entra niente.

Juarez, come ci racconta il titolare di un negozio di ottica, «è così da anni». Pochi esercizi hanno resistito da quando, tra il 2009 e il 2011, l’allora presidente Felipe Calderón varò l’Operativo Conjunto Chihuahua, vasta operazione militare nell’ambito della guerra al narcotraffico, nata per contrastare la criminalità organizzata ma che è ben presto sfuggita di mano generando un’impennata degli omicidi e della violenza. «Una volta questa strada era come l’Avenida Revolución di Tijuana, con migliaia di persone che ogni fine settimana passavano la frontiera per disperdersi tra bar e locali. Ormai nemmeno gli amici che vivono dall’altro lato, a El Paso, vengono a trovarmi. Devo andare io da loro» conclude l’ottico.

A CIUDAD JUAREZ vivono 1 milione e mezzo di messicani, a El Paso 600mila americani. Un tassista, mentre percorriamo Avenida Vicente Guerrero, che dalla Cattedrale attraverso la piazza su cui svetta il monumento a Benito Juarez porta al Circuito Pronaf, quartiere di hotel, casinò, centri commerciali e fast food che prende il nome dal Programa Nacional Fronterizo istituito nel 1961 con l’obiettivo elevare il livello economico e urbanistico delle città di frontiera, ci indica uno dopo l’altro, ricordandone i nomi, tutti i locali che hanno chiuso i battenti dopo il dilagare della criminalità e l’inizio dell’Operativo Chihuahua. «Qualcuno sta provando a riaprire, ma è difficile».

Dopo l’attacco dei Mexicles il governo federale ha inviato anche qui oltre seicento unità della guardia nazionale. È proprio il rischio di una nuova militarizzazione a spaventare la popolazione, come ci confermano in due diverse interviste Silvia Méndez del centro per i diritti umani Paso del Norte e Imelda Marruffo della Red Mesa de Mujeres.

Entrambe sottolineano che se prima dell’inizio dell’Operativo Chihuahua i morti a Ciudad Juarez erano circa trecento l’anno, da quel momento sono saliti fino a tremila: “Non parliamo solo di criminali, ma anche di cittadini caricati sui camion, torturati alla ricerca di un colpevole, uccisi” spiega Méndez. E donne. Tante, tantissime donne violentate, scomparse, assassinate. Per questo sulla cancellata che circonda il monumento simbolo della città, la statua a Benito Juarez, sono stati affissi diversi striscioni contro la militarizzazione.

INTANTO QUASI TUTTE le persone intervistate evidenziano come, nonostante la notizia di alcuni arrestati, non sia ancora stata fatta chiarezza su quanto avvenuto in città. Per Rocìo Gallegos, fondatrice e direttrice del sito di informazione indipendente La Verdad, incontrata nel bar di un hotel della zona Pronaf, il fulcro di tutto è nel carcere della città: «Le autorità bollano l’accaduto come una lotta tra bande rivali per il controllo del carcere» ma, così facendo, «ammettono di non gestire la prigione.

Ed è su questo che vertono le domande che, come Verdad, abbiamo posto alle autorità: Cosa è accaduto nella prigione? Come sono entrate delle persone armate all’interno della struttura? Grazie a chi? Perché nessuno, né a livello statale né a livello federale, chiama in causa il direttore del carcere? Come si può accettare che in una città come Juarez non sia lo Stato a controllare la prigione?». Risposte? «Nessuna».

L’assalto dei Mexicles a Ciudad Juarez è avvenuto l’11 agosto, quello a Tijuana il 13 agosto. Un normale weekend di paura nel narco-deserto alla frontiera con gli Stati uniti.