Ha passato in carcere 10 anni e nove mesi della sua vita, accusata di aver tentato di abortire. Jacqueline, così è stata chiamata, aveva 23 anni quando nel luglio 2011, dopo aver affrontato senza alcuna assistenza un parto extraospedaliero, aveva cercato l’aiuto dei medici per sé e per la sua neonata, che era sopravvissuta. La polizia, tuttavia, l’aveva immediatamente arrestata, ritenendo che avesse voluto interrompere la gravidanza. E il 12 dicembre di quello stesso anno era stata condannata a 15 anni di carcere per tentato omicidio.

UN INCUBO che si è concluso solo giovedì: Jacqueline ha finalmente varcato le porte della prigione, dopo essere stata privata della sua libertà per quasi 11 anni della sua vita e strappata alla figlia appena nata e a un altro figlio di otto anni.

«La libertà di Jacqueline rafforza la lotta per la libertà di tutte le donne criminalizzate per casi di aborto e di emergenze ostetriche», ha dichiarato la presidente dell’Agrupación Ciudadana por la Despenalización del Aborto, Morena Herrera: «È una decisione di giustizia affinché in El Salvador non ci siano più donne denunciate, perseguitate, processate, condannate e incarcerate per problemi di cui deve occuparsi il sistema di salute pubblica».

LA STRADA, però, è ancora molto lunga, come dimostra la condanna a 30 anni di carcere, appena una decina di giorni fa, di un’altra donna, chiamata Esme, che nel 2019 aveva avuto un aborto spontaneo nel mezzo di un’emergenza ostetrica. E che poi era stata tenuta per due anni in custodia preventiva, lontano dalla figlia di sette anni.

Un caso che ha destato una forte impressione, considerando che era da sette anni che un tribunale salvadoregno non emetteva una sentenza di condanna contro una donna alle prese con un aborto spontaneo.

Il rilascio di Jacqueline, tuttavia, è un’ottima notizia per tutto il movimento femminista salvadoregno, in lotta contro una delle legislazioni più restrittive del continente in materia di aborto, soprattutto nei confronti di donne prive di risorse economiche, con bassa scolarità e provenienti da aree rurali o da periferie urbane, che possono andare incontro all’accusa di omicidio aggravato anche qualora abortiscano spontaneamente o diano alla luce un neonato morto.

Una lotta che, se non ha ancora convinto i parlamentari a depenalizzare l’aborto almeno nei casi di minaccia alla salute della madre, di stupro e di malformazione del feto, ha almeno condotto, dal 2009 ad oggi, alla liberazione – con Jacqueline – di 65 donne condannate per emergenze sanitarie durante la gravidanza.

PRIMA DI LEI, lo scorso aprile, erano state rilasciate, dopo nove anni e cinque mesi di prigione, altre due donne condannate per omicidio aggravato: María, che nell’ottobre 2012 aveva avuto un aborto spontaneo senza neppure sapere di essere incinta, e ciononostante condannata per non aver agito «secondo l’istinto materno», e Glenda che nel 2011 aveva perso i sensi in bagno e si era risvegliata in ospedale, dove le avevano comunicato che era incinta e che era agli arresti.

Ed è proprio perché queste storie di inaudita violenza non debbano più ripetersi che le organizzazioni femministe salvadoregne chiedono almeno che si sviluppi un protocollo adeguato per questi casi, in linea peraltro con la promessa del presidente Nayib Bukele, non mantenuta, di «porre fine alla persecuzione sistematica delle donne che affrontano emergenze sanitarie durante le loro gravidanze».