Vi siete sorbiti 3-4 milioni di parole in 4 giorni, esordisce Eugenio Barba nella masterclass conclusiva al Forum culturale TTT di Madrid organizzato dall’italiano Residui Teatro. Al manipolo di «resistenti» (numerosi i gruppi tricolori, dal TT di Bergamo al Teatro Nucelo di Ferrara), il guru del danese Odin Teatret confida: «Da giovane, ero chiuso, convinto che il teatro di gruppo esistesse solo in Paesi affetti da dittatura. Così, nel ’75, alla morte di Franco, ho radunato i miei: ‘Vamos’ in Spagna!».

Con tocco leggero e scherzoso, Barba analizza i limiti di passate rivoluzioni culturali: «Il ’68 ha introdotto il credo d’una drastica trasformazione: della società o di noi stessi. E ha promosso un’ecologia del teatro, ma piantando, con Brecht o il Living, un unico albero, mentre teatro e cultura sono una selva oscura».

Tra workshop e spettacoli (pure Penelope di Viviana Bovino, già visto al Nurarcheofestival in Sardegna), tra dimostrazioni e testimonianze (con «milioni di parole»), il 4° TTT di Madrid ha dribblato le secche nostalgiche da raduno degli alpini rilanciando e ribadendo la parola d’ordine del teatro di gruppo, fiorito mezzo secolo fa: no al sistema. Dunque, fuori delle istituzioni, anzi, vs l’idea di teatro come servizio pubblico, stratificata in questi decenni da politiche sceniche eredi di Strehler, Planchon, Jean Vilar. Anche se, per vivere e affermarsi, il biberon istituzionale – e, nel caso del convegno spagnolo, quello della UE – è di rito. I «no» della Fortezza di Volterra al suo nascere son numerosi: «Niente attori professionisti, niente teatro ufficiale – spiega Armando Punzo nella master conference all’Istituto Italiano di Cultura – .Il carcere dove lavoriamo da 30 anni, e che è divenuto il nostro mondo, era all’inizio uno dei peggiori d’Italia. Oggi è all’avanguardia. Grazie al fatto che abbiamo capovolto il principio del sociale che nutre l’arte, puntando tutto sulla qualità artistica, capace di produrre trasformazioni sociali».

L’argentino Horacio Czertok del Teatro Nucleo, già della Comuna Baires, è più sottile. Formatosi negli anni dei desaparecidos («evocati con grande puntualità in Garage Olympo di Bechis»), lui stesso sequestrato prima di evadere in Italia nel ‘78, drammaturgo, intellettuale («ero amico di Borges e in Italia non mi sono perso uno spettacolo di Dario Fo, da quando lavorava alla Palazzina Liberty, da lui occupata contro l’ottusità ammnistrativa milanese»), Czertok rilegge Don Quijote ridando la parola a Miguel de Cervantes, per mostrare le furbe strategie politiche dell’autore: un testo mitico diventa così un manuale ‘vivente’ e contemporaneo di attacchi al potere, sotto travestimento letterario, inclusa una insospettata, anticipatrice emersione «dell’autonomia della donna (che non è Dulcinea).

Gli fa eco la norvegese Julia Varley, ammirevole in The Flying Carpet, dimostrazione di lavoro con virtuosismi vocali alla Cathy Berberian: «Quando Dario Fo ha ricevuto il Nobel il nostro gruopo a Oslo era assai orgoglioso – ricorda la Varley – perché Fo incarnava i nostri principi: costruirsi un’autonomia fuori del sistema. Un teatro di gruppo è per definizione contrario al sistema, non può funzionare secondo le sue regole».

Più volte evocato a Madrid, Dario Fo riappare ora a Roma, alla XVII Festa del Cinema, dove Gianluca Rame presenta il documentario Dario Fo: l’ultimo Mistero Buffo, sulla replica del 1° agosto 2016, addio alle scene del suo autore e interprete, scomparso due mesi dopo: in un momento in cui compagnie di tutto il mondo lo traducono e rappresentano, da Clacson Trombette e Pernacchi in curdo a Istanbul a Muerte accidental de un ricotero adattata a Buenos Aires a misura di Walter Bulacio, assassinato dalla polizia nel 1991. Espansione planetaria di chi aveva espresso al meglio la vocazione del teatro di gruppo, che Barba sintetizza in una formula: l’autodidatticismo, l’esercizio quotidiano che praticava Grotowski, suo maestro e modello: «Il teatro è un mestiere, come quello del chirurgo, dello zappatore: lo si impara facendolo».