Scrittore e giornalista da sempre impegnato contro le discriminazioni, Tahar Ben Jelloun ha presentato in questi giorni alla Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, la nuova edizione del suo libro Il razzismo spiegato a mia figlia (La nave di Teseo, pp. 296, euro 13 ).

Nato in Marocco, lei ha fatto da tempo dell’Europa la sua patria d’elezione. Come valuta ciò che sta accadendo nei confronti dei migranti?
Temo che l’Europa stia perdendo la propria anima. È profondamente malata ma non sta facendo nulla per curarsi, al contrario. Nell’ossessione che monta sul tema dell’identità, come nelle politiche sempre più restrittive che vengono varate nei confronti di chi arriva dall’altra sponda del Mediterraneo, non è in gioco solo una forma elementare di solidarietà, ma ciò che la civiltà europea rappresenta, le idee e la cultura per le quali in tanti hanno scelto e scelgono ancora oggi di venire a vivere qui.

Il suo libro sul razzismo è stato scritto oltre vent’anni fa. Cosa è cambiato da allora?
A differenza di ciò che si sarebbe portati a credere, non penso che il razzismo si sia diffuso maggiormente. Il vero problema risiede piuttosto nella sua banalizzazione. Le faccio un esempio. Nel 1995 un giovane marocchino annegò dopo essere stato gettato nella Senna da un gruppo di skinhead che partecipavano ad un corteo del Front National nel centro di Parigi. Oggi, almeno in Francia, simili tragedie non avvengono più, ma, allo stesso tempo, le idee che le hanno prodotte non destano più lo stesso allarme di un tempo. Oggi parlare di «noi » e di «loro» è divenuto pressoché quotidiano nel dibattito politico. Inoltre, il razzismo si è diversificato, oltre al rigetto nei confronti degli immigrati in quanto tali sono cresciuti l’antisemitismo e l’islamofobia.

Con quel libro rispose alla «loi Debré», con la quale la destra intendeva chiudere le frontiere francesi. Norme come quella sono ora al centro della politica europea.
Infatti, ed è drammatico. A questo clima si è arrivati per gradi. La chiave di volta è stato l’allarme per il terrorismo islamico, che nella propaganda dei razzisti si è traformato tout-court in una paura incondizionata per l’Islam e gli immigrati musulmani. Stabilita l’equazione tra pericolo e migranti, slogan che ha fatto vincere non poche campagne elettorali ovunque, si è arrivati alla rappresentazione attuale: chi arriva non è solo un «pericolo» ma anche un «nemico». E fa poca differenza se si tratta di un rifugiato o di qualcuno che attraversa il mare, nelle condizioni che conosciamo, per migliorare la sua vita.

A proposito della situazione italiana, già un decennio orsono scriveva come il razzismo fosse «autorizzato» da leggi precise.
Oggi si parla molto di ciò che dice e fa Salvini, ma ci si dimentica che il terreno sul quale si muove è stato lungamente preparato durante la stagione berlusconiana che ha aperto la strada – la Lega era al governo anche allora – alla demonizzazione degli «stranieri». L’attuale clima di odio, la destra lo alimenta ad arte da molto tempo. E la sinistra non lo ha combattuto come avrebbe dovuto. Anche se devo ricordare come proprio in questi giorni ho incontrato il sindaco di Napoli, de Magistris, che, in contrapposizione a Salvini, ha annunciato che il porto della sua città sarà sempre aperto per chi fugge dalla fame e dalla guerra.

Nel libro cita Balotelli e altri sportivi neri-europei. Questi atleti sono un simbolo dell’antirazzismo?
Possono svolgere un ruolo decisivo, soprattutto agli occhi dei più giovani. Pensiamo ai mondiali di calcio o alla foto delle atlete italiane di cui si è parlato in questi giorni. Sono figure in cui i ragazzi si possono identificare per smontare i pregiudizi e l’ipocrisia del razzismo.

Già nel 1977, in «L’estrema solitudine», raccontava la vita dei migranti in Europa. Il dibattito attuale dimentica che le nostre sono già società di immigrazione?
È proprio così, solo che i razzisti negano l’evidenza. Pensiamo a Trump che dimentica come si sono formati gli Stati Uniti. E i suoi epigoni europei non sono da meno. Per questo è importante che la cultura continui a cercare di unire ciò che questi personaggi vogliono dividere con tutte le loro forze.