La grande letteratura sui lager è stata scritta da sopravvissuti come Primo Levi, Elie Wiesel, Imre Kertész, adeguandosi a contenuti che sfiorano i limiti del dicibile. Tra loro, anche politici non ebrei, come David Rousset, Jorge Semprun e Tadeusz Borowski, figlio di polacchi deportati nei gulag, che trascorse ventisei mesi nei campi di Auschwitz, Dautmergen e Dachau. Stimato poeta prima del suo arresto, appena tornato in libertà volle testimoniare con racconti e poesie quella tragica «formazione» che lo aveva condotto sulla soglia della morte, riducendolo allo stadio di «musulmano».

L’opera di Tadeusz Borowski occupa da tempo una posizione di rilievo nel discorso sulla Shoah: nella sua monografia su Auschwitz Langbein ne ha lodato la perspicacia, Arendt ha trovato in lui ispirazione per il saggio Why the world remained silent?, Kertész lo ha considerato un modello, Todorov ha scritto su lui in Di fronte all’estremo. In Italia invece è tuttora poco noto e citato, anche perché le antologie finora uscite sono apparse in grande ritardo rispetto all’edizione tedesca, francese e americana (voluta da Philip Roth nel 1976).

Il poeta, il saggista, il narratore

Mondadori propone ora una poderosa antologia di suoi scritti, Da noi, ad Auschwitz (traduzione di Valentina Parisi, a cura di Luca Bernardini, pp. 564, euro 16,00) che ha il pregio di presentare insieme il Borowski poeta, saggista e narratore: gli interi Addio a Maria e Mondo di Pietra; i finora inediti in Italia Un certo soldato. Racconti scolastici, (auto)ritratto elegiaco una generazione falcidiata dall’occupazione; i Racconti da libri e giornali e dodici poesie.

Borowski, che aveva vent’anni anni al momento del suo arresto, ventotto quando si suicidò, interpreta con lucida originalità l’universo concentrazionario, vedendovi una sorta di sistema coloniale e l’emanazione distopica del fordismo: al momento dell’arresto, nel febbraio ‘43, stava leggendo Brave New World di Huxley, e questa lettura non fu priva di ricadute sulla sua opera. Per illustrare quell’esperimento politico e sociale, basato sullo schiavismo, la razzia e il massacro, Borowski ha creato un proprio alter ego, il «lagerizzato» Tadek , capace di dribblare i pericoli in maniera quasi picaresca, facendoci da guida nella metropoli concentrazionaria. Tadek ci mostra dunque l’idilliaca villetta di Harmenze, l’infermeria, il puff, le partite di calcio e gli incontri di box, fino al magazzino del Canada, vero cuore della locale economia sommersa. Quarant’anni prima della pubblicazione dei Sommersi e i salvati, il personaggio creato da Borowski dimostra come nessuno possa arrogarsi il diritto di considerarsi solo una vittima, essendo chiaro che si sopravvive a scapito altrui: «ci aveva insegnato come tutto il mondo fosse un unico grande lager, dove il debole lavora per il potente e se non ha la forza o la voglia di lavorare, be’, allora che rubi, o muoia».

Anche nel potente Addio a Maria la Varsavia occupata è teatro di una caccia all’ebreo, ormai considerato merce di guadagno o di scambio. Lo scrittore si rivela assai sensibile anche a ciò che Rousset ha chiamato l’elemento ubuesque della vita concentrazionaria, l’abominevole «buffoneria tragica» dal sapore céliniano e kafkiano: il suo destabilizzante humour nero acuisce la percezione di un mondo alla rovescia, in cui ogni confine è stato superato e non c’è più spazio per l’indignazione. Il passo successivo consiste nell’esortarci a non credere mai del tutto ai racconti dei sopravvissuti, compreso il suo: Borowski gioca perfino con l’eventualità che la sua fidanzata, Maria, in realtà salvatasi, sia stata trasformata in sapone. Un simile sarcasmo anima del resto anche il pioneristico glossario della lingua del lager, e memorabili sono le descrizioni della messa in scena del Fidelio ad opera dei sopravvissuti, ora nei campi per Displaced persons, e della chiesetta bavarese con le foto delle SS, in Opera, opera, La battaglia di Grunwald, La fine della guerra.

Suicida a ventotto anni

Questa gelida lontananza di Borowski dalla retorica del dopoguerra ha fatto pendere fin da subito sul capo del giovane scrittore l’accusa di nichilismo. E proprio in questa percezione, propagata anche da Milosz, risiedono probabilmente le ragioni del ritardo italiano nella sua scoperta e soprattutto del non altrimenti spiegabile silenzio di Primo Levi, che non poteva ignorarne gli scritti. Disponendo i testi in un ordine che incrocia cronologia e temi, e recependo anche curiose prove narrative del periodo realista socialista (tra i raccontini ispirati dalla stampa straniera c’è La chioccia, che allude a donna Rachele e al suo pollaio a Villa Torlonia) Luca Bernardini ricostruisce attraverso i testi e la documentata introduzione, ciò che chiama i capitoli del «romanzo» della vita di Borowski fino al suo suicidio, all’indomani della nascita della sua unica figlia.